nono appuntamento con la memoria autobiografica
di un Autore sconosciuto ai più
Pisa. La Casa del Popolo “Antonio Gramsci” - La Cella.
Dal Centro di Formazione Professionale Enaip di
Pontedera, dunque, mai una gioia, anzi non pochi i motivi di insoddisfazione e
frustrazione. Dai quali mi rifacevo con la sempre più intensa frequentazione
del Circolo Arci “Antonio Gramsci” - La Cella e della sezione del Partito
comunista ospitata nei suoi locali. Una Casa del Popolo come ce n'erano tante
nella civile Toscana del secolo scorso, serrata tra il bacino dell'Arno e la
Tosco-Romagnola, segmento breve e più alto di un lungo filare di casette basse e
scialbate in giallino. Nel buiore di una strada stretta e tutte curve che
portava a Riglione, Cascina, Fornacette e Pontedera, ne indicava l'esistenza un
grande neon luminoso, dove accanto alle lettere dell'insegna spiccava il
simbolo del Pci: una bandierina tricolore e una rossa appaiate, con un più
ampio spazio concesso alla rossa, naturalmente, e tanto di falce e martello.
Tre gradini da salire, una porta a vetri cigolante e si entrava nel più
importante spazio di aggregazione civile, politica, culturale e umana di
quell'area a sud-est di Pisa, dimenticata da Dio e anche dagli uomini che pure,
con non poca fatica, si adoperavano per amministrare la città della Torre
pendente. Alcuni tavolini, quasi tutti claudicanti, accerchiati da sedie da bar
e in fondo a sinistra il bancone del ”dispensiere”: termine diffuso in tutto il
Pisano per indicare colui che amministrava la dispensa, preparava e distribuiva
- dispensava - caffè e soprattutto ponci, plurale di ponce, adattamento
pisano-livornese dall'inglese punch (bevanda). Ovvero caffè corretti al
rum con scorza di limone, alla livornese; oppure al sassolino, o anche al
mandarino, senza dimenticare il cognac o la sambuca... A lui. al dispensiere,
non si chiedevano cocktail particolarmente elaborati o raffinatezze alcoliche,
ma correzioni robuste a un prezzo contenuto, oggetto di solito di aspre
discussioni in sede di Comitato Direttivo della Casa del Popolo. Era lui a
gestire la macchina per il caffè sistemata a destra del piano d'appoggio, i cui
vapori, durante la stagione invernale, contribuivano anche ad alzare un po' la
temperatura piuttosto rigida di un ambiente mal riscaldato. Dietro un grande
specchio appannato rimandava a fatica le immagini dei frequentatori, complicate
da un articolato sistema di scaffali di vetro su cui erano ben esposte le
bottiglie del tesoretto alcolico del Circolo: amari e grappe, cognac e brandy,
sambuche e, per i più cosmopoliti, una sola marca di vodka e un paio di tipi di
whisky. Qui, per tutto il tempo della mia frequentazione del Circolo,
stazionarono bottiglie di strane
sopravvivenze spiritose; liquidi desueti come il Marsala, liscio o all'uovo, e
il Vov, un ignobile intruglio di zabajone liquoroso, che ricordavo di aver
annusato, spacciato come “corroborante”, nelle non rare occasioni in cui ero
apparso deperito agli occhi dei miei sempre ansiosi genitori. E per non bere a
sciacquabudella venivano in soccorso piccole confezioni di noccioline
americane, di “seme” (i romanissimi bruscolini), di nocciole, di caramelle,
liquerizie, gomme da masticare, tavolette di cioccolato, qualche polveroso
pacchetto di biscotti dall'aria vetusta. In un angolo un grande surgelatore, in
funzione solo durante l'estate, prometteva di contribuire a stemperare la
calura dei giorni d'estate con i suoi prodotti
rigorosamente “Sammontana gelati all'italiana”: cremini e ghiaccioli,
coppette e semifreddi.
“Noi, 'un ci si 'apisce nulla”
Una scala collegava il piano terra col primo e un
ambiente più vasto deputato alle assemblee dell'Arci o del Pci, ai congressi di sezione, alle
(rare) proiezioni. Certo, non era la Sala Nervi: trenta/quaranta sedie di
plastica, un tavolo in fondo per la presidenza, sul lato opposto collocato su
un trespolo aggettante un televisore. In un andito nascosto una stanzetta arredata
con armadi di metallo con i registri dell'amministrazione e i cedolini delle
tessere, croce e delizia di ogni serio dirigente comunista con l'assillo
perenne del 100 per 100 nel tesseramento. Appoggiate a un angolo le bandiere da
sventolare durante le manifestazioni: quella del Pci, dell'Arci e su alcuni
scaffali le raccolte degli ultimi anni di “Rinascita”, a cui Circolo e Sezione
erano abbonati, ma che nessuno leggeva perché reputate rivista di difficile
lettura. Malinconicamente si ammucchiavano settimana dopo settimana. “Vedi tu”
mi esortava il compagno Romano Mussi del Direttivo “se c'è qualcosa che
t'interessa prendila pure. Noi” concludeva tra il frustrato e il compiaciuto “'
'un ci si 'apisce nulla”. Andava meglio con “Giorni-Vie Nuove”, che trattava
anche temi sportivi e non disdegnava ogni tanto qualche fotografia di belle
ragazze. Qualche copia ne circolava sui tavoli del bar e non pochi compagni la
sfogliavano e qualcuno ne commentava anche ad alta voce gli argomenti. Era il modesto, ma non banale, tentativo dei
comunisti per confrontarsi con una cultura di massa in larga espansione:
inadeguato, certo, ma interessante per per i temi trattati (il femminismo, la
condizione giovanile e il '68, il cinema, la televisione, il dissenso nei Paesi
socialisti, il mondo della canzone, lo sport, la moda...) con i quali “Giorni -
Vie Nuove”, diretto da Davide Lajolo, giornalista di razza e vigoroso
scrittore, si adoperava per mettere in relazione i comunisti, gli elettori del
Pci e i simpatizzanti con un paese reale in ribollente trasformazione nei
comportamenti e nella mentalità. Agli abbonati, poi, venivano dati in regalo
libri di qualche pregio per i contenuti e come prodotto editoriale. Uno di
questi, La storia degli italiani di Giuliano Procacci, ottenuto con la
solita procedura di delegarne la lettura agli “intellettuali”, onora ancora
oggi gli scaffali della mia libreria.
Nessun commento:
Posta un commento