18 marzo 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani (decima puntata)




memorie autobiografiche di un ventenne romano

capitato a Pisa per caso mezzo secolo fa



Donne e Feste.
Rare e fugaci le apparizioni femminili nei locali del Circolo. La donne - mogli, figlie, sorelle, madri – facevano rapide comparse per ricordare ai mariti, ai padri, figli, fratelli, che era ora di tornare a casa, che era pronto in tavola, che si era presentato qualche problema che solo una presenza maschile poteva aiutare a risolvere. Non stava bene per una donna fermarsi troppo a lungo in quegli ambienti per soli uomini, per di più piuttosto grossolani nei modi e spesso, assai spesso, simpatizzanti più per l'alcol che per l'idea della Necessaria Vittoria del Proletariato. Solo ora, a ripensarci, mi rendo conto che lì le donne non avevano voce: le mogli e le figlie venivano iscritte d'ufficio all'Arci o al Pci, e se le loro più o meno consapevoli adesioni contribuivano al conseguimento del faticoso e sospirato obbiettivo del 100 per 100 nel tesseramento, non le ritrovavi, mai o quasi, rappresentate negli organismi dirigenti dell'una o dell'altra Associazione.

Si dava, però, nel corso dell'anno un tempo breve (in genere due fine settimana lunghi, venerdì, sabato e domenica, la formula di calendario economicamente migliore ribadivano i compagni più esperti) in cui le donne risultavano finalmente decisive e al centro della vita associativa. Accadeva d'estate ed erano i giorni, magici, della locale Festa dell'Unità, un momento importante nel calendario emozionale della comunità della Cella. Allora, in occasione di quella corrispondenza laica con la festa del santo patrono, che, peraltro, nei miei anni alla Cella non ho mai vista celebrata, si ristabiliva l'uguaglianza tra i generi e l'altra metà del cielo assumeva il ruolo strategico che le spettava. Se competeva agli uomini l'allestimento materiale dei banchi, dei tavoli, degli ombrelloni, dei pannelli colorati di rosso con i profili di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, senza trascurare il compagno Ho Chi Min, che delimitavano l'area della festa allestita in un piccolo slargo tra le case popolari, toccava alle donne riempire quello spazio degli afrori e dei sapori di una densa, robusta e appetitosa cucina toscana: tortelli al sugo, penne arrabiatissime, zuppa toscana di cui non ho mai più provato l'eguale, cacciucco alla livornese, coniglio, anzi conigliolo, al sugo con le olive o fritto, rostinciana, panzanella, vassoi di finocchiona e pecorini, patate fritte, frati zuccheratissimi e bomboloni alla crema sempre strabordante... E poi fette di cocomero diaccio e melone, gelati Sammontana, birra, Coca Cola e tanto, ma tanto vino per bagnare e animare a dovere quelle serate estive in cui la Festa dell'Unità rappresentava l'unico svago per le famiglie che non potevano permettersi le vacanze estive, al massimo una girata a Marina o a Tirrenia la domenica pomeriggio. Il programma, oltre al veloce comizio d'apertura affidato a un compagno della Segreteria venuto espressamente dalla Federazione, prevedeva una tombolata gigante con ricchi premi, un torneo di briscola con ricchi premi, una riffa, posizionata sui numeri della ruota di Firenze sempre con ricchi premi. Ricchi premi: ovvero un salame oppure un prosciutto, l'uno e l'altro di non eccelsa qualità e stagionatura, mentre un piccolo tavolo di libri, riviste e pubblicazioni di propaganda provvedeva a soddisfare le esigenze culturali del ristretto gruppo degli “intellettuali”.
Si ballava alle Feste dell'Unità? In proposito nella memoria non mi è rimasto nessun graffio significativo e in tutta sincerità debbo dire che nessuno dei compagni della Cella mi sembrava possedere il fisico adatto per gettarsi nelle danze e neppure la necessaria libertà giocosa della testa e del corpo. O forse sono io, ancora oggi, ad attribuire agli altri le mie timidezze, le mie difficoltà di relazionarmi con pienezza.
E poi, che Dio possa perdonarci, c'era il gioco del porcellino! Ovvero, in uno spazio circolare, delimitato da scatolotti numerati, veniva abbandonato un povero Cavia porcellus, un roditore da esperimenti da laboratorio, che a forza di urla, improperi, risate, bestemmie e cori da stadio veniva sollecitato a infilarsi in uno dei bussolotti. Vincevi, se il numero del piccolo box in cui la bestiola cercava di trovare riparo dalle grida corrispondeva al tuo. E così ad libitum. ancora e ancora, fino a quando l'animaletto, definitivamente terrorizzato, si bloccava al centro dell'arena o si rifiutava di uscire dall'ultima scatola. Nessuna sensibilità animalista ci toccava allora per un divertimento da denuncia alla Protezione Animali, ma popolarissimo tra i frequentatori della Festa...
E le domeniche un appuntamento fisso: diffusione straordinaria dell'Unità con centinaia di copie vendute porta a porta, suonando campanelli e citofoni, interrompendo ultimi sonni e colazioni, complicando vite private e diritti al riposo e alla privacy.
Era bello, comunque, con sospir mi rimembra, tirare tardi nel fresco della notte, succhiando un ghiacciolo e discettando sui massimi sistemi: il Vietnam e la Dc, il Partito e i gruppi extraparlamentari, le imminenti elezioni - c'era sempre un appuntamento elettorale che incombeva -  e le lotte sindacali vicine e lontane. Si andava a letto ancora più convinti. E contenti di un'esistenza piena di senso, del fatto che eravamo fortunati a vivere in quel tempo così pieno di prospettive, così ricco di speranze. Così intenso da desiderarne due, di vite, per vederle tutte realizzate.
In fondo, la politica - quella politica lì, praticata in quella maniera -  rappresentava uno dei pochi, forse l'unico, elemento d'ordine di giovani vite alle prese col caos affettivo ed esistenziale proprio dell'età e peculiare di quei complicati giorni lontani.



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