24 marzo 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani (Undicesima puntata)




noterelle di uno di Roma sugli usi e i costumi

dei proletari pisani negli anni Settanta


Mogli e figli.
Numerose il giusto le famiglie dei compagni. Due/tre figli e mogli, spesso, ma non sempre, precocemente invecchiate nel fisico, poco curate nel corpo, sciatte, segnate da una vita di sacrifici e dalla frequentazione con mariti non sai se più trascurati o disattenti, certo privi di qualsiasi motivazione alla vita familiare. Le casalinghe erano quelle messe peggio, mentre nelle poche donne che lavoravano coglievi ancora una fierezza, un portamento dignitoso e lampi di autonomia intellettuale che ti sorprendevano piacevolmente. Rarissime, almeno in pubblico, le manifestazioni di affetto o di tenerezza degli uomini verso figli e consorti, raccontate come impacci, ostacoli, impedimenti a una vita più piena, più “da uomo”. Ignoro se poi nel privato, nell'intimità questi pisani di periferia fossero capaci di premure o gesti di tenerezza, certo è che non li lasciavano trasparire quasi fossero gesti inopportuni, se non riprovevoli. Eppure i compagni non mancavano mai di celebrare l'otto marzo, la festa dell'altra metà del cielo, con rametti di mimosa, un piccolo rinfresco e la diffusione straordinaria di “Noi Donne”. Nella vulgata dominante le mogli erano sempre incazzate con questi mariti impegnati allo spasimo a cambiare il mondo e a conquistare l'armonia sociale e quindi con poco tempo disponibile per la vita domestica e l'educazione della prole. Che tra la ferrovia e la spalletta dell'Arno vedevo crescere libera ma anche riottosa, quando non irriducibile e solo apparentemente obbediente alle intenzioni familiari. Ricordo un Paolo, una Paola, una Sabina, un Piero partecipi di una dimensione infantile separata o con pochi o punti agganci col mondo degli adulti, due realtà che raramente s'incontravano o appena si sfioravano di tanto in tanto. Sarà stato un bene o un male? Non lo so, non ho avuto modo e tempo per seguirne crescita ed evoluzione: certo per questi “bimbetti” la famiglia non era un granché e la scuola era anche peggio.

La scuola e il doposcuola.
Non il luogo della formazione culturale e umana, ma una dimensione afflittiva e umiliante, la scuola, per ragazzini, maschi e femmine, che parlavano male, scrivevano peggio e non erano per niente interessati ai programmi scolastici. Ne conseguivano comportamenti indisciplinati, se non addirittura ribelli e un profitto bassissimo, vittime designate, quei bambini, di una feroce selezione scolastica, peraltro condivisa e introiettata dai genitori: “sai” mi dicevano,”mio figlio/a non è portato/a per lo studio. Subito dopo la licenza dell'obbligo, via, a lavorare!” Rari, rarissimi tra questi adolescenti quelli che tentavano la scuola superiore per interromperla presto e malamente dopo uno/due anni di frustranti insuccessi... E diventavano apprendisti. Commesse le ragazze nei negozi della zona in attesa di un fidanzato, poi marito che permettesse loro di accasarsi alla bella e meglio; nelle piccole fabbriche di Ospedaletto, Riglione, Navacchio, Cascina, Fornacette, Pontedera,  i ragazzi: tanta fatica, sporcizia, orari lunghissimi, pochi soldi e una vita di sfruttamento davanti.
Per aver almeno provato a cambiare questo destino già definito di subalternità e sottomissione, almeno una citazione la meritano i volontari del doposcuola che venne organizzato alla Cella negli anni '73 e '74 e resse fino all'istituzione degli Organi collegiali della scuola. La frequentarono i figli delle famiglie residenti nelle case popolari della Cella che, tutti o quasi, incontravano difficoltà, né piccole né poche, nella scuola del mattino A loro e ai loro destini scolastici si dedicarono per due anni, tutti i pomeriggi dal lunedì al venerdì, soprattutto Paolo Borghi, Nino Zampaglione, Luciano Luciani, Paola Gnesi, Betti Gnesi, Gigi Previti, Gioia Maestro, Walter Siti, Angelo Curatola, Franca Mirti, Sandra Minelli, Cristiana Torti e ancora qualcun altro di cui si è ormai dissolto il castello di sabbia del loro viso e non ne ricordo neppure il nome. Al secondo piano del Circolo, quello vocato alle riunioni di Partito, si facevano assieme i compiti per il giorno dopo, si preparavano le lezioni, si provava a costruire una linea di difesa contro una scuola media crudele e aggressiva verso i figli dei poveri. Se è vero che i volontari del doposcuola ottennero una qualche forma di riconoscimento dall’istituzione scolastica tant’è che partecipavano agli incontri con gli insegnanti in sostituzione dei genitori, dal preside e dai docenti di quella scuola media che si trovava alle spalle di via Benedetto Croce (le scuole Marconi?) non ricordo che sia mai venuta una parola di attenzione e simpatia, comprensione e condivisione con quelle attività pomeridiane che pure si adoperavano per sanare i loro guasti della mattina. Eppure qualcuno dei “bimbetti” ce lo portammo a conseguire la licenza di scuola media, con fatica ma ce lo portammo, e un tale risultato fu motivo di qualche soddisfazione e di una stima rinnovata da parte dei compagni che per la prima volta scoprivano i figli tutt'altro che inadatti, alla scuola, tutt'altro che scemi o come li definivano loro, “ghiozzi”. Mi sembra importante ricordare che quel gruppo di studenti, di “intellettuali”, come tra il bonario e lo svalutativo veniva indicato dai compagni del Circolo, rimase insieme ancora per alcuni anni e partecipò all'esperienza degli educatori e animatori dei soggiorni estivi effettuati nel territorio del Comune di Zeri e istituiti dall’allora Consorzio di Medicina Scolastica dell’Amministrazione Provinciale di Pisa in collaborazione con alcuni Comuni (Pisa, San Giuliano Terme, Cascina, Guardistallo...). Di lì la formazione di un'associazione, il Gruppo di Impegno sui Problemi Educativi, Gripe, che ebbe un'esistenza tutt'altro che effimera durata un paio d'anni, realizzò alcune attività non disprezzabili tra la scuola e il sociale e si concluse per la naturale diaspora dei suoi componenti chiamati dalla vita ad altri lavori, ad altre responsabilità



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