noterelle di uno di Roma sugli usi e i costumi
dei proletari pisani negli anni Settanta
Mogli e figli.
Numerose il giusto le famiglie dei compagni. Due/tre
figli e mogli, spesso, ma non sempre, precocemente invecchiate nel fisico, poco
curate nel corpo, sciatte, segnate da una vita di sacrifici e dalla
frequentazione con mariti non sai se più trascurati o disattenti, certo privi
di qualsiasi motivazione alla vita familiare. Le casalinghe erano quelle messe
peggio, mentre nelle poche donne che lavoravano coglievi ancora una fierezza,
un portamento dignitoso e lampi di autonomia intellettuale che ti sorprendevano
piacevolmente. Rarissime, almeno in pubblico, le manifestazioni di affetto o di
tenerezza degli uomini verso figli e consorti, raccontate come impacci,
ostacoli, impedimenti a una vita più piena, più “da uomo”. Ignoro se poi nel
privato, nell'intimità questi pisani di periferia fossero capaci di premure o
gesti di tenerezza, certo è che non li lasciavano trasparire quasi fossero
gesti inopportuni, se non riprovevoli. Eppure i compagni non mancavano mai di
celebrare l'otto marzo, la festa dell'altra metà del cielo, con rametti di
mimosa, un piccolo rinfresco e la diffusione straordinaria di “Noi Donne”.
Nella vulgata dominante le mogli erano sempre incazzate con questi mariti
impegnati allo spasimo a cambiare il mondo e a conquistare l'armonia sociale e
quindi con poco tempo disponibile per la vita domestica e l'educazione della
prole. Che tra la ferrovia e la spalletta dell'Arno vedevo crescere libera ma
anche riottosa, quando non irriducibile e solo apparentemente obbediente alle
intenzioni familiari. Ricordo un Paolo, una Paola, una Sabina, un Piero
partecipi di una dimensione infantile separata o con pochi o punti agganci col
mondo degli adulti, due realtà che raramente s'incontravano o appena si
sfioravano di tanto in tanto. Sarà stato un bene o un male? Non lo so, non ho
avuto modo e tempo per seguirne crescita ed evoluzione: certo per questi
“bimbetti” la famiglia non era un granché e la scuola era anche peggio.
La scuola e il doposcuola.
Non il luogo della formazione culturale e umana, ma
una dimensione afflittiva e umiliante, la scuola, per ragazzini, maschi e
femmine, che parlavano male, scrivevano peggio e non erano per niente
interessati ai programmi scolastici. Ne conseguivano comportamenti
indisciplinati, se non addirittura ribelli e un profitto bassissimo, vittime
designate, quei bambini, di una feroce selezione scolastica, peraltro condivisa
e introiettata dai genitori: “sai” mi dicevano,”mio figlio/a non è portato/a
per lo studio. Subito dopo la licenza dell'obbligo, via, a lavorare!” Rari, rarissimi
tra questi adolescenti quelli che tentavano la scuola superiore per
interromperla presto e malamente dopo uno/due anni di frustranti insuccessi...
E diventavano apprendisti. Commesse le ragazze nei negozi della zona in attesa
di un fidanzato, poi marito che permettesse loro di accasarsi alla bella e
meglio; nelle piccole fabbriche di Ospedaletto, Riglione, Navacchio, Cascina,
Fornacette, Pontedera, i ragazzi: tanta
fatica, sporcizia, orari lunghissimi, pochi soldi e una vita di sfruttamento
davanti.
Per aver almeno provato a cambiare questo destino già
definito di subalternità e sottomissione, almeno una citazione la meritano i
volontari del doposcuola che venne organizzato alla Cella negli anni '73 e '74
e resse fino all'istituzione degli Organi collegiali della scuola. La
frequentarono i figli delle famiglie residenti nelle case popolari della Cella
che, tutti o quasi, incontravano difficoltà, né piccole né poche, nella scuola
del mattino A loro e ai loro destini scolastici si dedicarono per due anni,
tutti i pomeriggi dal lunedì al venerdì, soprattutto Paolo Borghi, Nino
Zampaglione, Luciano Luciani, Paola Gnesi, Betti Gnesi, Gigi Previti, Gioia
Maestro, Walter Siti, Angelo Curatola, Franca Mirti, Sandra Minelli, Cristiana
Torti e ancora qualcun altro di cui si è ormai dissolto il castello di sabbia
del loro viso e non ne ricordo neppure il nome. Al secondo piano del Circolo,
quello vocato alle riunioni di Partito, si facevano assieme i compiti per il
giorno dopo, si preparavano le lezioni, si provava a costruire una linea di
difesa contro una scuola media crudele e aggressiva verso i figli dei poveri.
Se è vero che i volontari del doposcuola ottennero una qualche forma di
riconoscimento dall’istituzione scolastica tant’è che partecipavano agli incontri
con gli insegnanti in sostituzione dei genitori, dal preside e dai docenti di
quella scuola media che si trovava alle spalle di via Benedetto Croce (le
scuole Marconi?) non ricordo che sia mai venuta una parola di attenzione e
simpatia, comprensione e condivisione con quelle attività pomeridiane che pure
si adoperavano per sanare i loro guasti della mattina. Eppure qualcuno dei
“bimbetti” ce lo portammo a conseguire la licenza di scuola media, con fatica
ma ce lo portammo, e un tale risultato fu motivo di qualche soddisfazione e di
una stima rinnovata da parte dei compagni che per la prima volta scoprivano i
figli tutt'altro che inadatti, alla scuola, tutt'altro che scemi o come li
definivano loro, “ghiozzi”. Mi sembra importante ricordare che quel gruppo di
studenti, di “intellettuali”, come tra il bonario e lo svalutativo veniva
indicato dai compagni del Circolo, rimase insieme ancora per alcuni anni e
partecipò all'esperienza degli educatori e animatori dei soggiorni estivi
effettuati nel territorio del Comune di Zeri e istituiti dall’allora Consorzio
di Medicina Scolastica dell’Amministrazione Provinciale di Pisa in
collaborazione con alcuni Comuni (Pisa, San Giuliano Terme, Cascina,
Guardistallo...). Di lì la formazione di un'associazione, il Gruppo di Impegno
sui Problemi Educativi, Gripe, che ebbe un'esistenza tutt'altro che effimera
durata un paio d'anni, realizzò alcune attività non disprezzabili tra la scuola
e il sociale e si concluse per la naturale diaspora dei suoi componenti
chiamati dalla vita ad altri lavori, ad altre responsabilità
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