Com'era fluida, composta, veloce la falcata di Livio Berruti in quel tardo pomeriggio del primo sabato del settembre '60!
Alto, elegante, leggero quel ragazzo di
vent'anni, con larghi occhiali neri che gli coprivano il viso, ancora prima del
colpo sparato dallo starter, con il linguaggio del corpo lasciava chiaramente
intuire chi sarebbe stato il prossimo campione olimpico nella specialità dei 200 metri piani.
Una
sicurezza che non era boria, non era arroganza, ma piena consapevolezza nei
propri mezzi, maturata in ore e giorni di allenamenti, noiosi, ripetitivi,
sempre uguali... La sua tranquillità, la certezza nella imminente vittoria
trapelava dai gesti, pacati, rilassati con cui il “mio campione” prendeva posto
nella buchetta di partenza.
Un falso via, poi quello giusto. E io lo sapevo,
l'ho sempre saputo durante tutti quei 20'5 secondi in cui è durata la corsa,
che se Livio avesse battuto i primatisti della distanza, l'inglese Radford e
gli americani Norton e Johnson, allora anche i miei prossimi esami di
riparazione, spalmati secondo un convulso calendario scritti-orali di lì a
pochi giorni, non sarebbero potuti andare male.
Tra me e lui, tra la sua gara e la mia, tra il parterre dello stadio Olimpico e la mia stanzetta calda e sudata in un appartamento del quartiere Trieste-Salario c'era un nesso magico, un legame portentoso e stregato. Basso più che basso il volume del televisore, per dare a tutti l'impressione di essere alle prese coi misteri delle perifrastiche passive, ero invece totalmente immerso nei preparativi della partenza, nella tensione della gara, nella gioia della vittoria che era già tutta nello scatto della partenza.
Ed io ne ero perfettamente consapevole.
Negli anni successivi mi sono spesso interrogato, riproiettandomi quel film nella testa di adolescente o di adulto, magari già ampiamente adulto, la ragione di quella strana, intensa, piena felicità del momento.
In fondo cosa me ne importava? Spirito di appartenenza? Ma se non sono stato mai né un patriota, né un nazionalista! E neppure un tifoso particolarmente acceso per l'azzurro in nessuna specialità sportiva, a partire dal calcio. Forse era solo l'ammirazione incondizionata per una manifestazione in cui poteva dispiegarsi in tutta la sua pienezza l'armonia, l'equilibrio, l'euritmia? Che c'entrassero in qualche modo gli studi classici, le letture dell'Iliade e dell'Odissea e tutta quella lingua dei Romani antichi, tradotta per tre anni sia pure obtorto collo? Questo so: di un'occasione rara di allegra, pura, purissima esultanza e di come quelle immagini, le immagini di quella gara, abbiano costituito per anni, sino a oggi, spesso, i miei pensieri di fuga prima di addormentarmi.
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