di Giulietta Isola
“Questo stato non è sorto dai miracoli, in duemila anni di esilio il nostro popolo aveva perso il senso dell’indipendenza e della sovranità e attendeva miracoli e salvezza dal Cielo. La nostra generazione di pionieri si è ribellata contro il tradizionale fatalismo ebraico, è tornata alla storia e ha mutato la sua direzione. (…) Saremo in grado di costruire una nazione da un miscuglio di gruppi etnici e di tribù che si sono radunate qui da tutti gli angoli del mondo?”.
Aliyah il “biblico ritorno” alla Terra Promessa. Negli anni ’20 del Novecento un gruppo di giovani ebrei lascia l’Unione Sovietica per trasferirsi nella Palestina sotto mandato britannico, sono uniti dal desiderio di realizzare una società più giusta e inaugurare un nuovo modo di essere ebrei, ma l’insediamento in Medioriente non si rivela facile: il lavoro è massacrante e il caldo insopportabile, la convivenza con gli arabi tutt’altro che pacifica e la nostalgia di casa fa capolino nelle ore più buie. Con strenua volontà i giovani pionieri riescono, in qualche modo, a piegare quella terra dura ed a far nascere il kibbutz Beth Afikim, il vero protagonista di questa storia assieme ai tanti personaggi che lo popolano e che sono la sua voce, il suo cuore e le sue mani.
Assaf Inbari, nato e cresciuto in un kibbutz, parte dalla Russia per riappropriarsi della memoria e dar forma al passato imbastendo un’inchiesta che è prima di tutto geografica e non genealogica, il prologo può solo essere la diaspora accompagnata dal disperato bisogno di “tornare” là, in Palestina, dove tutto iniziò.
Eccoci quindi a percorrere quasi un secolo di storia che va dal sogno socialista fino agli anni delle privatizzazione, tre generazioni, la biografia di un luogo, il kibbutz che, per chi si è trasferito dall’Ucraina alla Valle del Giordano, era il luogo della crescita e dell’identità ebraica , la vittoria sul trauma di essersi sentiti troppo a lungo in terra straniera. La narrazione di formazione e di formazioni si fa corale: adolescenti diventano uomini e spazi diventano geografie nell’epopea di un popolo o forse più giustamente di una nazione. Lonya, Clara, Lassia, sanno di avere una enorme responsabilità, vogliono “costruire” una casa che li accolga, il loro sogno è riuscire a vivere una vita più giusta ed equilibrata e, per farlo, abbracciano le ideologie socialiste contrarie al consumismo, sono disposti a tutto pur di dare il loro contributo alla creazione di un mondo migliore per se stessi e per la loro gente in un processo collettivo di partecipazione e di responsabilità.
Il kibbutz è lavoro collettivo, fatica condivisa, divisione dei ruoli, spezzarsi la schiena fra banane e agrumeti, lavorare una terra poco generosa dal clima ostile ed intanto il pianeta supera la Guerra Mondiale , arrivano i primi sopravvissuti dei lager e la Palestina si sveglia trasformata in Stato d’Israele.
Negli anni 80 la crisi si abbatte sui kibbutzim , per la prima volta si parla di “privatizzazione”, le utopie a poco a poco si sgretolano, il cambiamento non investe solo il kibbutz ma l’intero Stato ebraico, spinto in avanti verso un cambiamento forse inevitabile. “I padri fondatori […] avevano ambizioni monumentali, irrealistiche: pensavano di poter cambiare la natura umana di colpo, eliminare la solitudine con la vita comunitaria, cancellare crudeltà, avidità, egoismo con l’eguaglianza.
Un sogno meraviglioso che – va detto a loro merito – tentarono senza gulag e polizia”, disse Amoz Os, vissuto a lungo in un kibbutz , lo stesso dove è sepolto. Che cosa resta allora dell’impresa di quei giovani? Rimangono i prati verdi, il canto degli uccelli e le traiettorie delle loro migrazioni, ma nessuno conosce più nessuno nei nuovissimi appartamenti di Afikim , “ un luogo nato come un sogno” oggi è semplicemente un domicilio.
Dal 2004 il governo israeliano ha permesso ai kibbutzim di introdurre la proprietà privata e dei circa 260 kibbutz – per un totale di circa 120mila abitanti – ancora esistenti in Israele la maggior parte ne sperimenta alcune forme. Una scelta che da un lato snatura quel modello utopico alla base, ma dall’altro diventa obbligata per evitare lo spopolamento di queste colonie agricole, messe a dura prova dal seducente richiamo che attira i giovani in città.
Questo bel romanzo è uno spaccato della storia e della società israeliana, della sua ricchezza e delle sue feconde contraddizioni raccontato dalla penna limpidissima di Inbari che ”ha una prosa dolce nelle tragedie, divertita nei drammi, maliziosa nelle vicende private e ironica in quelle pubbliche”. Consigliato.
VERSO CASA di ASSAF INBARI GIUNTINA EDIZIONI
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