04 febbraio 2022

“Le parole” di Jean-Paul Sartre

 


di Davide Pugnana

Se per l'antichità e la modernità, devo girarmi a guardare con infinita riconoscenza Sant'Agostino e Rousseau, per il secolo che è già Storia dietro le mie spalle e nel cui grembo ho fatto in tempo a nascere, due sono le autobiografie che hanno dato nuovo corso alla mia interiorità e, col loro metodo introspettivo - perché di "metodo" come esercizio e disciplina all'introspezione si può parlare -, hanno orientato il lavoro della mia memoria verso una comprensione più profonda dell'infanzia e della prima giovinezza.

Non dimentico in me lo speciale lavorio della "Recherche" proustiana anche se questa miracolosa cattedrale, traforata dalla luce di liriche intermittenze, non può appartenere che in parte e cum grano salis al genere dell'autobiografia.

Dicevo, due autobiografie sono (ac)cadute nel mio romanzo di formazione: la primissima epifania venne da "La lingua salvata" di Elias Canetti, con quell'incipit memorabile - ve lo ricordate? - del "più lontano ricordo intinto di rosso", tra le braccia di una ragazza senza nome; mentre il secondo incontro fondamentale è stato con "Le parole" di Sartre: l'unico testo che abbia saputo spiegare al me stesso di un tempo lontano il valore intuitivo delle prime letture; l'opacità trasparente ed arcana delle prime parole; la magia totemica di un'affabulazione compresa per metà nell'incanto orale, ma assorbita per sempre da uno sguardo per il quale esistevano le immagini prima che i segni del Verbo.

Descrivere le parole con delle parole è un paradosso, forse IL paradosso. Nonostante tutto ci proviamo sempre, e accettiamo di buon grado questa sfida dell’intelletto e dell’anima che forse non porterà a nulla di buono. Eppure ci fa sentire così bene, quando l’accettiamo.

Jean Paul Sartre, giunto al fatidico giro di boa della mezza età, nel 1964 fa un riassunto della propria vita giocando con le parole, incantandoci e intitolando il proprio testo proprio “Le parole”. Nella villa del nonno Charles c’è un grande salone: le pareti sono foderate da una spessa biblioteca, i volumi sono numerosi. Sartre ha solo quattro anni ma non resta indifferente alle bizzarre mattonelle parlanti capaci di intrattenere gli adulti per ore. La madre e il nonno amano infatti sedersi in poltrona, soprattutto la sera, in compagnia di un libro. Qualcosa di magnetico vi è nascosto all’interno. Forse un codice segreto seppellito negli strani ghirigori d’inchiostro.

Il piccolo Sartre osserva di nascosto le pagine e ha una folgorazione: è l’incontro con le parole. Sono dunque loro a parlare. Dotate di una voce muta intrattengono gli adulti fino al limitare del sonno. La biblioteca stessa – di dimensioni mastodontiche per un bambino di pochi anni – pare una gigantesca muraglia costruita da solide fondamenta. Ma il mistero delle strane mattonelle rivestite in pelle antica è presto disvelato: dalle pagine apparentemente mute sgorgano racconti, avventure marine, leggende di pirati e filibustieri.

 È l’incontro con la lettura: il nascere della scintilla. Un libro, qualsiasi libro, diviene il rimedio contro la solitudine che lo morde: bambino solitario e viziato dalle cure materne – ingannato, fin dalla più tenera età, sul suo aspetto fisico – impara a leggere per sfuggire al vuoto, alla noia delle lunghe giornate in compagnia degli adulti. La lettura e dunque la letteratura sono l’antidoto contro l’assenza dell’altro, del simile. Non ci sono amici nella vita di Sartre, non compagni di scorribande, ragazzetti con cui giocare nel parco, ridere, improvvisare imboscate e corse a mosca cieca: «mi avvicinavo a loro, mi sfioravano senza vedermi. […] Avevo incontrato i miei veri giudici, i miei contemporanei, i miei pari, e la loro indifferenza mi condannava».

La lettura riempie il vuoto, protegge dalla meschinità. Letteratura è il mondo ritrovato, terra nuova dove poter vivere. Unico mezzo per «raggiungere l’assoluto». Ne trascrivo dei passi tra i più belli perché "Le parole" è un libro da sottolineare, da rileggere, da trascrivere, da imparare a memoria: 

<<Ero pazzo di felicità: mie, mie quelle voci dissecate nei loro piccoli erbari, quelle voci che mio nonno rianimava col suo sguardo, ch'egli capiva e che io non capivo! Le avrei ascoltate, mi sarei riempito di discorsi cerimoniosi, avrei saputo tutto. Mi lasciarono vagabondare fra i libri e diedi l'assalto all'umano sapere. E' stato questo formarmi. [...] 

I ricordi folti e la dolce irragionevolezza delle infanzie campagnole, invano li cercherei in me. Non ho mai razzolato per terra, non sono mai andato a caccia di nidi, non ho erborizzato né tirato sassi agli uccelli. Ma i libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, la mia stalla e la mia campagna; la libreria era il mondo chiuso in uno specchio; di uno specchio aveva la profondità infinita, la varietà, l'imprevedibilità. [...] 

Steso sul tappetto, intrapresi aridi viaggi attraverso Fontanelle, Aristofane, Rabelais: le frasi mi resistevano come fossero oggetti; bisognava osservarle, girare intorno ad esse, fingere di allontanarmi e ritornarci sopra all'improvviso per sorprenderle quando non tenevano la guardia: quasi sempre esse conservavano il loro segreto. [...] 

Nei libri ho incontrato l'universo: assimilato, classificato, etichettato, pensato, temibile anche; e ho confuso il disordine delle mie esperienze libresche con il corso naturale degli avvenimenti reali. a ciò venne quell'idealismo per disfarmi del quale ho impiegato trent'anni."

 Jean Paul Sartre. Le parole.Traduzione di Luigi de Nardis. Il Saggiatore.

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