18 febbraio 2022

"Beppe Fenoglio: considerazioni" di Davide Pugnana

 


           Il 18 febbraio 1963, a soli 41 anni, moriva Beppe Fenoglio, scrittore letto pochissimo dal grande pubblico; adorato oltre modo da chi approccia alla letteratura con piglio tecnico; squisitezza dei docenti universitari di letteratura contemporanea e non; idolo intoccabile dei Club fenogliani disseminati in giro per l'Italia.

       Nel mio piccolo anch'io posso vantare ormai un appartato decennio di frequentazione dei romanzi e dei racconti di Fenoglio. Davanti a questo scrittore posso dire che aveva ragione Roland Barthes quando scrisse che le passioni di un lettore sono destinate a vivere dentro piccole solitudini. Con i testi di Beppe Fenoglio questa condizione di isolamento mi ha portato, negli anni, a farne un culto privato. Questa marginalità non è da imputare a Fenoglio; ma va ricercata lontano. 

       Per la narrativa, ad esempio, a scuola si prediligono i politissimi Primo Levi e Italo Calvino, dei quali gli insegnanti parlano di straforo, tra le bighe di rosse formiche di Montale e le fragili, pendule foglie sugli alberi d'autunno di Ungaretti. Così finisce che pochissimi leggono Fenoglio, mentre altri perdono completamente l'occasione di conoscerlo. 

       Spesso guardo le foto che lo ritraggono: Fenoglio era un alto gentleman all'inglese, sempre elegante, con l'eterna sigaretta in mano; i capelli corti a spazzola, il viso rasato e plastico, scolpito nel legno, crivellato di epidermiche imperfezioni come buccia d'arancia. In alcuni scatti ci guarda seduto su un sasso, la camicia bianca, la cravatta, la pochette, le lunghe gambe da infaticabile camminatore come quelle di Pavese, mentre alle spalle occhieggiano le lande lucidate dal vento delle Langhe che sembrano una porzione della brughiera inglese di "Cime tempestose". 

       Fenoglio me lo sono sempre immaginato come uno che doveva pensare costantemente alla scrittura, sentita come un tarlo sublime, come "una fatica nera"; ma le ore della sua giornata scorrevano dentro una prestigiosa azienda vinicola che lo costrinse a dedicarsi alla scrittura solo nei ritagli di tempo. E il tempo per scrivere Fenoglio se lo ricavò, in ufficio e a casa, di sera e di notte, tra i colpi di tosse, sempre con la tenacia di chi avverte la scrittura come un modo di conoscersi e di comprendere se stessi, l’uomo, il proprio tempo, tutto quanto è passato ed è stato vissuto.

      Rispetto a quei congegni mirabili che sono i racconti; rispetto alla plasticità da bassorilievo intagliato nel legno della "Malora" e rispetto al fiabesco venato di ariostismo di 'Una questione privata", nella narrativa italiana un'opera come "Il partigiano Johnny" è un tentativo enorme per un romanziere. Nonostante sia incompiuto, le intenzioni e i risultati sono di respiro europeo già da due elementi portanti: il modello epico, sulla linea di un epos romanzesco il cui dna si incunea tra "Moby Dick", "Orcynus Orca" di D'Arrigo e Céline; e lo sperimentalismo linguistico con quell'innesto vertiginoso di inglese e italiano (il "fenglese") su modulazioni stilistiche via via diverse, e che danno vita ad un corpo lessicale nuovo nell'alveo della lingua letteraria del romanzo italiano. Questo Fenoglio estremo è, per me, di grande coraggio e innovazione anche nel "non finito". Scrive con la solita finezza Davide Brullo: "La strategia delle scelte è decisiva. Intanto, Beppe vuole come maestri di lingua i poeti. Perciò, Il partigiano Johnny ha il ritmo dell’epica, la sinfonia del poema celeste, possiamo giocare a spezzarlo in versi, reggerebbe benissimo."

        Voglio dirvi una cosa a questo proposito. Se aprite a caso una pagina qualunque di Beppe Fenoglio - un romanzo, un racconto, una nota di diario - non importa quale gusto, fiuto o cultura vi guidino, vedrete che, in qualunque punto del testo vi troviate, esso funziona sempre, come il più preciso dei meccanismi d'orologeria e il più perfetto dei mondi. 

      Vogliamo provare? Tenetevi forte. L'attacco del "Partigiano Johnny": "Aleggiava da sempre intorno a Johnny una vaga, gratuita, ma pleased and pleasing reputazione d’impraticità, di testa fra le nubi, di letteratura in vita… Johnny invece era irrotto in casa di primissima mattina, passando come una lurida ventata fra lo svenimento di sua madre e la scultorea stupefazione del padre.

        O quello de "I ventitré giorni della città di Alba", ironico e folgorante: “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944”. Con "Una questione privata" siamo subito dentro un spazio che vorremo abitare: "La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba. Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo.

       Ma in gioco ci sono anche i racconti, con la loro avara, centellinata economia narrativa. Quando scopri quelli di Fenoglio resti di sasso. Per un attimo hai l’impressione di aver ficcato due dita nella presa elettrica e di aver avuto la scossa. Non perché quelle parole ti elettrizzino, ma perché ti bruciano: nel senso, semplice e vero, che sono brucianti. Di fronte a un attacco del genere non puoi che restare di stucco: «Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta. Ammazzò suo fratello in cucina, freddò sull’aia il nipote accorso allo sparo, la cognata era sulla lista ma gli apparì dietro una grata con la bambina ultima sulle braccia e allora lui non le sparò ma si scaraventò giù alla canonica di Gorzegno. Il parroco stava appunto tornando da visitare un moribondo di là di Bormida e Gallesio lo fulminò per strada, con una palla nella tempia». Una furia omicida raccontata così sembra un’orchestra che suona nell'ombelico di un temporale, qualcosa che c’investe e ci butta a terra. Del protagonista Gallesio non sappiamo ancora niente, ma ci sembra di saperne già tutto. Ci pare di averlo capito grazie a una scintilla d’intuizione che nasce dall’attrito fra le parole. 

       Leggere Fenoglio significa fare esperienza di diseredati, campagne, fucilate, staffette, inglesismi, vendette, inseguimenti, condotte virtuose e ripugnanti. Leggere Fenoglio significa fare i conti con una pagina calibratissima, con una prosa scaturita da un purosangue; significa stare al fianco di un fuoriclasse dei dialoghi crudi, dei passaggi mozzafiato, di incipit straordinari che fanno rimanere incollati al racconto fino in fondo; ma anche un cantore di polarità strazianti, come amore e guerra mescolati insieme perché è la vita a farlo, prima della narrativa. 

       Chissà che questo vento fenogliano del centenario farà riprendere in mano qualche testo già letto o lo farà leggere per la prima volta. Il mio consiglio a questi ultimi: non indugiate oltre, lasciatevi traumatizzare dalla bellezza del genio fenogliano.

 

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