05 aprile 2022

Berlinguer e la crisi italiana. Qualcuno remò contro di Luciano Luciani

 


 


Parte seconda

        Una strategia, quella del cosiddetto compromesso storico, che porta il Pci di Berlinguer non al governo, ma nell’area di governo, proprio mentre il segretario compie gli atti decisivi per un riposizionamento internazionale del suo partito. 

       Tra i successi della proposta di Berlinguer almeno due meritano di essere rimarcati: riportare il Pci al centro della scena politica dopo un’eclissi durata trent’anni e soprattutto tutelare la democrazia italiana da qualsiasi tentazione autoritaria. “Considerato il carattere esplosivo della crisi italiana “scrive Paul Ginsborg “non fu un risultato da poco”. Un esito al quale non si può non aggiungere che in due anni di politica di unità nazionale l’inflazione dimezza passando da dal 20 al 10 % e il commercio con l’estero presenta un saldo attivo di seimila miliardi di lire e cospicue riserve valutarie.

       Eppure, nonostante tali aspetti positivi, quella proposta non funzionò. Non si realizzò o si realizzò solo in parti modeste “il cambiamento di classe dirigente” e “un nuovo potere politico democratico fondato sull’unità delle masse popolari”. Come mai, cosa accadde, quali le difficoltà che si rivelarono insuperabili?

       Intanto il Pci, il suo segretario e la strategia di cui il Partito comunista era asse, cuore e cervello si trovò al centro di attacchi forsennati che recuperavano, aggiornandolo, il peggior armamentario anticomunista degli anni Cinquanta. E il fronte ostile era assai composito: andava da Almirante agli Autonomi, alle Brigate Rosse passando per la Dc non morotea e per un Psi ondivago che riscopriva d’improvviso antiche vocazioni libertarie e antiautoritarie, arruolando qua e là anche qualche nome illustre del mondo della cultura… 

        Mentre sulle strade e sulle piazze continuava lo stillicidio dei morti ammazzati, in genere giovani o giovanissimi ma non solo, delle gambizzazioni, in un clima di violenza diffusa, di città che vivevano un clima da guerra civile a bassa intensità: ululati di sirene, gente che ha paura a uscire di casa… Il 1977 si chiude col bilancio di 23 morti per vicende di violenza politica, 247 feriti, 1805 assalti a negozi, scuole sedi politiche e sindacali, uffici di polizia… Un crescendo, sino all’ “affare Moro” che doveva segnare nel profondo la vita politica e civile del Paese: una ferita non rimarginata con i suoi silenzi, misteri, le sue ricorrenti rivelazioni… 

       Ma sarebbe sbagliato attribuire quella sconfitta alla sola opposizione a quel progetto o, peggio, assegnare alla sua variante complottista la spiegazione di un sostanziale insuccesso. Quel programma non si realizzò per motivi endogeni, perché ci furono numerosi difetti circa i modi con cui venne portato avanti. Non ultimo il carattere autoritario e gerarchico assunto da questa strategia che si affidava ad accordi di vertice, le cui decisioni sarebbero state trasmesse alla base delle grandi organizzazioni politiche e sindacali. 

       Poi una palese contraddizione tra fini e mezzi: gli obbiettivi erano maggiore democrazia, solidarietà, uguaglianza, ma gli strumenti erano rappresentati da due partiti in cui la democrazia interna spesso faticava, due partiti poco o punto tolleranti verso i rispettivi eretici e non conformisti. 

        E scavando ancora di più nel profondo, penso si possa dire che Berlinguer, forse, non colse in tutta la sua portata la gravità della crisi italiana, rispetto alla quale lo stesso compromesso storico e la politica di unità nazionale si rivelarono inefficaci e inadeguate. Una percezione e una consapevolezza che emergono poco a poco e segnano alcuni interventi del segretario del Pci che non di rado si caricano di accenti in anticipo sui tempi e quasi profetici: “Dobbiamo abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle riserve, di dissesto finanziario… “ Ecco, dunque, il tema dell’austerità che valse al segretario banalizzazioni, travisamenti, sarcasmi e l’accusa di “savonarolismo”. 

        Ma per Berlinguer l’austerità era “non un mero strumento di politica economica a cui si ricorre per superare difficoltà temporanee e consentire così la ripresa dei vecchi meccanismi economici e sociali”; al contrario, per il politico comunista. Questa parola, austerità, disusata e scomoda, significa guerra agli sprechi, razionalizzazione delle risorse, efficienza, ordine: la condizione materiale per un diverso modello di società, per una nuova qualità dello sviluppo. In armonia con l’esigenza di spostare risorse dai consumi individuali, spesso non essenziali, indotti artificiosamente, alienanti e discriminanti, ai bisogni collettivi: la sanità, la scuola, la pubblica amministrazione. 

        Insomma, “un’arma di lotta moderna e aggiornata contro i difensori dell’ordine economico e sociale esistente”, “premessa per avviare il cambiamento”, “un atto liberatorio per grandi masse soggette e vecchie sudditanze e intollerabili emarginazioni” perché “come nelle società decadenti vanno insieme e imperano le ingiustizie e lo scialo, così nelle società in ascesa vanno insieme la giustizia e la parsimonia”. Secondo la riflessione di Berlinguer è in corso nel Paese una crisi grave, inedita, che mette all’ordine del giorno bisogni nuovi e discute criticamente vecchie forme di rappresentanza politica e sindacale

       Per niente trascurabile, poi, il sospetto con cui quella svolta, compromesso storico e unità nazionale, venne riguardata dal Pcus e dai “partiti fratelli”. L’applauso della platea a conclusione del discorso tenuto a Mosca il 3 XI 1977, in occasione del 60esimo anniversario della Rivoluzione d’ Ottobre è, a dir poco, tiepido, se non peggio. Demetrio Volcic, allora giornalista inviato di “Repubblica, non può fare a meno di notarne la durata: cinque secondi, il più breve e il meno caloroso della giornata. Non è la rottura con l’Urss e l’esperienza del cosiddetto socialismo realizzato, ma, certo, da parte del leader del più grande partito comunista dell’occidente capitalistico, viene marcato, e con più forza del solito, un dissenso profondo. L’anno prima, il 1976, l’anno delle elezioni politiche in Italia che avevano visto il Pci di Berlinguer toccare il 35% dei voti dell’elettorato, il segretario del Pci, in un altro breve intervento in occasione del XXV congresso del Pcus, siamo nel febbraio 1976, non aveva avuto particolari remore nell’affermare che “la lotta unitaria condotta dal Pci in Italia è rivolta a realizzare una società socialista nuova che garantisca tutte le libertà, personali e collettive, civili e religiose”. Senza dimenticare, sempre in quell’anno 1976, la clamorosa intervista concessa a Giampaolo Pansa per il “Corriere della sera”: “Io non voglio che l’Italia esca dal Patto atlantico… mi sento più sicuro stando di qua”. Insomma, il Patto atlantico, oggetto di tante contestazioni negli anni ’50 e ’60 è diventato lo scudo per costruire il socialismo in un regime democratico. Berlinguer, ammetteranno i commentatori - Ugo La Malfa in primis – parla con una voce sola, a Roma come a Mosca. Posizioni, per altro, non nuove, ma che si alimentano di profonde, antiche radici togliattiane: la svolta di Salerno e il Memoriale di Yalta e fanno di Berlinguer l’erede creativo di Togliatti e della sua via nazionale al socialismo, resa credibile e vitale dalle lotte per la pace e contro il riarmo, per la democrazia, per il progresso sociale e civile dei lavoratori, per la libertà della cultura, per la costante attenzione riservata dai comunisti italiani alle lotte per l’autodeterminazione dei popoli dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina.

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