di Elisa Bertoni
Non è facile approcciare un libro di memorie
perché si rischia di volerlo inquadrare in modo rigoroso, facendone smarrire
l'identità: è storia e se ne può attingere come fosse un documento o è romanzo
in cui l'aspetto di una trasfigurazione soggettiva dell'elemento autenticamente
biografico traligna dall'oggettività del reale? A rendere ancora più complessa
la questione è la presenza, in questo caso specifico, di una coppia di autori,
padre e figlio, come se il testo fosse stato scritto a quattro mani, nonostante
la pubblicazione avvenga molti anni dopo la morte di uno degli autori, Mario. Inoltre,
perché padre e figlio presentano un cognome simile ma diverso?
Il libro incuriosisce dunque già in partenza
aprendo la porta a svariati interrogativi.
Una chiave per avvicinarsi ad una comprensione più
genuina dell'opera la troviamo nelle pagine che precedono la vera e propria
narrazione. Si legge nella sezione Cartiglio: “Tutto è meglio della pura
verità” (Pierre Sebor, 6.1.86). La dimensione soggettiva insita nella vita di
ognuno è ciò che permette di vivere, nel momento in cui la pura verità, se si
rivelasse limpida come un'idea platonica nell'iperuranio, nel momento in cui
spazza via in modo cinico e brutale l'entusiasmo di un ideale vissuto con
autentica passione, alimenterebbe solo rabbia, rinuncia se non disperazione e
nichilismo. La memoria anche di fedi che hanno deluso e tradito si impone come
esperienza utile per provare a rifocalizzarsi verso obiettivi di speranza e non
di morte. Inoltre, vendere “pure verità” può essere la bandiera a cui si
attaccano i potenziali dittatori perché il reale sfugge sempre al monopensiero
delle tirannidi.
E sempre in Cartiglio, ad apertura: “Quel giorno
erano in migliaia, con le loro grida nervose ed il battimani ritmato, a
sovrastare Jimi Hendrix. Invocavano sul palco i Monkees” (8 luglio 1967,
Jacksonville-Florida). Perché questa citazione? Di fronte ad una epopea
rivoluzionaria della musica come quella incarnata da Jimi Hendrix, il pubblico
chiama a gran voce i Monkees, un gruppo che è stato creato per inscatolare
commercialmente la canzone sulla scia del successo dei Beatles, tanto che il
critico musicale Glen Baker li definì “la prima grande vergogna del rock”. La
voce del popolo non è sempre vox dei, secondo il noto motto popolare; in
epoca contemporanea la massa subisce costantemente un processo di
strumentalizzazione sia nel campo dei consumi che in quello politico sociale ed
il messaggio che arriva forte dalle pagine di questo diario è proprio l'occhio
a non lasciarsi trascinare da effimere esaltazioni che invece di promuovere il
talento/progresso inneggiano all'omologazione/regresso, all'ubbidienza cieca e
acritica ad un potere che si proclama forte ed autoritario.
Il libro si può anche considerare una sorta di
romanzo di formazione con un finale che tuttavia rimane aperto. L'approdo, dopo
la tragica conclusione del conflitto e la dolente percezione dell'inutile
spargimento di sangue di tanti civili inermi, si potrebbe sintetizzare in una
coppia di versi di Montale: “codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non
siamo, ciò che non vogliamo”. Lo Stato fascista pur nell'esibita ostentazione
della sua forza non è riuscito a proteggere la sua gente per una insufficiente
preparazione allo sforzo bellico o, secondo la ribadita opinione di Mario, per
il tradimento di comandanti e di reparti, e a quanti sono stati animati da un
genuino amor di patria non rimane che un cocente senso di smarrimento e
sbandamento. Il vitalismo di matrice dannunziana che aveva animato il giovane
Mario incline a gustare la sua vita come fosse un vero e proprio romanzo tra
gesti di insubordinazione e l'eroismo della solidarietà, tra atti di coraggio
ed avventure amorose molteplici, vissute tutte con intensità, come chi voglia
assaporarne ogni sfumatura nella diversità degli incontri, viene barbaramente
umiliato dalla storia, frustrato dal disinganno che lascia il marinaio
barghigiano incapace di ritrovare in modo non contraddittorio un'altra fede cui
donare il cuore. Se si esclude il valore degli affetti e dell'amicizia, specie
quella per Ottone suo compatriota e compagno d'armi, che alla fine diventa il fil
rouge che dà unità alla storia. Si legga in chiusa al libro “...scrutando
la realtà del cielo e del mare, dalla mia nave, che ho perduto, sono stato
indotto a spingermi incontro alla vastità di tutto quanto non conoscevo, a
costruire il sogno della mia vita, che non si è perso nell'orizzonte, perché
era celato nel corpo e nell'anima delle persone amate, in cui mi sono
specchiato, per provare ad essere diverso da come mi avevano costruito”. Il sogno miseramente vessato dalla storia si
cela nel cuore delle persone amate: questa frase ha il sapore di un testimone
che consegna agli affetti, anche al figlio Romano, ed è un impegno a non
spegnere la vita e l'entusiasmo per essa attraverso vie diverse e nuove al di
là di quelle in cui il giovane Mario si era incamminato con baldanzosa audacia
e genuina speranza.
Alla lettura si può percepire una netta cesura tra
quello che avviene prima della guerra e della disfatta di Capo Matapan e il
dopo: le pagine della prima parte più leggere e briose, tessute di reminescenze
musicali e della giovanile esuberanza dell'autore paiono invecchiare di colpo,
si fanno più stanche, nude, crude, rispecchiando la frustrazione dei reduci.
Nella scrittura del diario, rispetto ad un documentario cinematografico, le
immagini affiorano con la forza dei sentimenti di chi descrive eventi che ha
vissuto e visto, perciò permangono con più incisività anche nella memoria del
lettore. Come non figurarsi il marinaio Mario, amante della lettura e delle
donne, aperto al nuovo, dotato di squisita sensibilità lirica, che si avventura
nei mari pur venendo dai monti di Barga? Come non sentire vicine le sofferenze
ed i turbamenti di un uomo che affronta eventi eccezionali in tempi eccezionali
destinati poi a precipitare miseramente nel disincanto di chi non può fidarsi
più neppure dei propri generali? Gli siamo accanto quando si riflette nel motto
“tenacemente” della nave ammiraglia Zara su cui è imbarcato, accanto nella
notte atroce che trascorre naufrago tra tanti commilitoni a seguito
dell'affondamento dello Zara, percependo il suo stesso “disgusto infinito, per
tutti quei corpi dilaniati, per quei pesci immondi, per questo freddo, per chi
ci ha condannato a morire senza combattere...”, e accanto nella sua prigionia
greca, a nutrirsi di olive e di paleo bollito, come prevenzione allo scorbuto.
Il mare, nella sospensione di lunghe traversate,
abitua alla riflessione: “il destino del marinaio, si legge, è... quello di
sentirsi lontano da tutto e da tutti, nella grande immensità del mare, che
rispecchia la vastità delle sensazioni dell'anima, con le quali si confronta”.
Ci sono momenti in cui Mario, pur in un contesto storico come quello fascista,
che relega la donna al ruolo asessuato di madre e moglie devota, precorre i
tempi nel cammino verso l'uguaglianza di genere, quando afferma a proposito
delle delusioni amorose: “o forse è difficile accettare che la donna, anche in
questo, sia uguale all'uomo e che il desiderio di conquista, pure per lei, sia
più forte di ogni fedeltà”. C'è in lui una forma di anarchia del pensiero che
lo spinge a riconsiderare tutto alla luce delle proprie rimeditate esperienze.
E' lui stesso a costruirsi vero e proprio
personaggio letterario nel momento in cui si autobattezza Zeppolini
dall'originario Zipolini, sulla scia della fama del dirigibile Zeppelin, capace
di navigare i cieli così come il protagonista vola proteso sui suoi sogni;
sogni che grazie al libro ci vengono riconsegnati intatti perché si stabilisca
quella sana dialettica tra le epoche che dovrebbe far approdare al porto
dell'evoluzione. Dallo scontro delle generazioni deve nascere l'incontro delle
generazioni con le specifiche peculiarità, il foxtrot e le danze coreografiche
di Tangolita amate da Mario si possono mettere accanto allo shake amato da
Romano: chissà che non ne nasca un ballo nuovo che unisca tutti, il ballo
dell'umanità. A noi non accadrà, in questo imperativo futuro che si pone volutamente più
come certezza che come speranza proprio nell'incertezza dolente di un mondo in
cui la guerra continua ad affacciarsi, sono affidate memorie che non si consumano in loro stesse
ma che vogliono programmaticamente costruire dialoghi aperti, non settari, e
per questo fortemente coraggiosi.
A noi non accadrà (un marinaio nella seconda guerra mondiale; da Barga a Capo Matapan, la prigionia, Bari) di Mario Zeppolini e Romano Zipolini. Tralerighe libri
Nessun commento:
Posta un commento