di Marigabri
Sulla dannata guerra fratricida in Bosnia finalmente leggo un libro
antiretorico, sincero, maturo (niente protagonisti bambini/adolescenti a
pietire afflati di lettori commossi) che racconta come Sarajevo sia diventata
nel giro di pochi mesi una prigione a cielo aperto.
Distrutta inspiegabilmente la cultura multietnica che la caratterizzava, di
cui il rogo della bellissima biblioteca nazionale è il tragico simbolo, la
città diventa il teatro di una guerra assurda e implacabile, sprezzante di ogni
diritto umano e insensibile a ogni differenza: implacabile e assurda come tutte
le guerre, del resto.
Perché l’odio inveterato cerca il suo oggetto a caso e poi colpisce a
raffica, ovunque. È il caso dei cecchini appostati ai piani alti di qualche
edificio che si dilettano a fare il tirassegno contro chiunque abbia la
sventura di passare per strada in quel momento. Giovani, vecchi, donne,
bambini: è lo stesso. L’odio praticato come religione rende tutti uguali nello
spargimento di morte a caso.
Priscilla Morris si ispira alla sua storia famigliare per raccontare di
Zora, serba bosniaca, pittrice di una certa fama e insegnante all’accademia
delle Belle Arti, che si trova nel giro di poco tempo prigioniera in una città
assediata e ben presto ridotta alla fame. Recisi tutti i contatti col mondo
fuori, Zora non riesce più a comunicare con i suoi cari: sua figlia vive in
Inghilterra; suo marito Franjo l’ha raggiunta insieme alla fragile madre di
lei, per proteggerla dalle prime minacciose incursioni dei nazionalisti serbi.
Musulmani, croati, serbi sono i gruppi che costituiscono la nazionalità
bosniaca: non sono etnie diverse ma appartengono allo stesso ceppo slavo. Negli
anni Novanta però qualcosa si rompe, la pacifica convivenza viene lacerata dal
nazionalismo fanatico che rimane tuttavia incomprensibile alla popolazione
civile e agli intellettuali come Zora.
Il racconto di una città sotto assedio è precisa, devastante, mentre segue
il progredire insensato della violenza. La vita quotidiana dapprima sembra
soltanto sospesa, ma in breve tempo ogni frammento di normalità viene
annullato, sembra ardere nel rogo della Vijećnica, il palazzo simbolo della
città, una meraviglia architettonica da cui si innalzano ora nere scaglie di
cenere: quel che resta della cultura, del buon senso, della vera, autentica
umanità. Una sola domanda : perché?
E poi: “Nel giro di una settimana, Sarajevo si apre come una piaga.[…]
siamo tutti i profughi ormai, passiamo i giorni ad aspettare acqua, pane, aiuti
umanitari: mendicanti nella nostra stessa città.”
Zora non può più insegnare, il suo studio distrutto nell’edificio
distrutto, eppure cerca, fino all’ultimo, di continuare a dipingere: la sua
specialità sono i ponti, ma quando si guarda intorno vede solo rovine: “Tutto,
ovunque, è marrone e buio, fradicio e rovinato”.
I sopravvissuti si stringono intorno a quel che resta delle loro case, alle
poche coperte, al niente di cibo.
E intanto, senza quasi più contare i giorni, un anno è passato.
Qui c’è la storia di Zora e non solo. Personaggi che rappresentano un
popolo, legami umani che si intrecciano e si spaccano, sentimenti, parole e
corpi. Qui c’è una città, Sarajevo, che è impossibile non vedere e non amare.
Qui c’è una letteratura che ci restituisce la vita nella sua nuda,
essenziale e complessa verità.
Priscilla Morris. Le farfalle di Sarajevo. Neri Pozza.
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