I sindacalisti siamo abituati a
pensarli più a loro agio con le parole parlate che con quelle scritte:
assemblee, comizi… Più della penna di una volta, più del computer di oggi, è il
megafono che connota il sindacalista. E abbiamo sempre immaginato che per i
funzionari delle organizzazioni dei lavoratori la scrittura si restringa alla
stesura del volantino o alla elaborazione del comunicato stampa.
Si tratta di un luogo comune e anche
un po’ trito, smentito da numerosi Autori che provengono dalla pratica
sindacale: uno per tutti, Virginio Giovanni Bertini, lucchese, per anni
importante punto di riferimento politico e culturale nella città delle Mura. Un
riconoscimento guadagnato sul campo perché Bertini in non poche situazioni
significative è andato ben oltre la consueta prassi sindacale
dell’organizzazione e contrattazione della forza lavoro; ha saputo allargare
gli orizzonti dell’azione sociale; ha individuato forze e soggetti nuovi da
coinvolgere e mobilitare; ha proposto obbiettivi originali e strade non battute
per perseguirli. E le sue scoperte e i suoi rovelli, i suoi successi e le
battute d’arresto li ha fatti rifluire sulla pagina scritta, utilizzando ora i
modi della prosa, ora quelli della poesia. La forma espressiva più amata da
Virginio e che per la sua straordinaria alchimia tra arte ed emozione, il suo
particolarissimo potere di evocazione e suggestione si rivela all’Autore come
il modo più adeguato per raggiungere insieme la ragione e il sentimento.
Una sensibilità quasi naturale,
quella di Bertini per la poesia, una vocazione irrobustita e resa più
consapevole dai severi studi classici nel liceo cittadino e mai abbandonata.
Neppure negli anni degli eroici furori, delle lotte studentesche e sindacali e
ritrovata più tardi, al tempo della prima maturità, con Fraternità, 1997, una
originale raccolta poetica di testi con al proprio centro il lavoro di
fabbrica, la sua organizzazione e i suoi protagonisti. Versi in cui si
prefigura la loro perdita di centralità, di importanza nella società e si
enumerano le trasformazioni epocali indotte dalla globalizzazione nei rapporti
di forza fra le classi, nelle relazioni fra le persone. Testi e versi
culturalmente, socialmente e politicamente orientati, “civili”, carichi di una
fortissima tensione ideale. Non a caso il titolo, Fraternità: dei tre grandi principi dell’ ‘89 rivoluzionario, il
più complesso, il più difficile, il più remoto a realizzarsi. Una silloge in
cui non mancavano momenti di pausa, di ripiegamento interiore, malinconie e
riflessioni esistenziali, occasioni di contemplazione della bellezza che
lasciavano già presupporre ulteriori svolgimenti dell’ispirazione poetica di
Virginio: quelli che, appunto, si danno in questa ultima raccolta, Fuorigioco, ancora fresca di stampa e
che rivela un cospicuo arricchimento
della gamma delle sensibilità dell’Autore che sa trovare immagini e parole per
temi che, nella sua precedente esperienza poetica, erano rimasti solo accennati,
abbozzati, allusi. Per esempio la scoperta e la contemplazione della bellezza,
la sua ricerca, la rivelazione di come e quanto essa sia insidiata dalla
sofferenza, dalla pena.
Un dolore fisico e morale che non ha
solo cause storiche e sociali, ma appartiene alla condizione umana, la sua stessa
esistenza ne è intrisa. Così il bellissimo canto di nozze, un epitalamio dai
sentori classici, dedicato al matrimonio del figlio con Alessia, vibrante nel
ritornello “Inizia il viaggio,/ parte la danza,/ amore passione/ amore
speranza…” è, messo in relazione con testi come Incomunicabilità d’amore, Fine di un amore, a testimoniare la
caducità, la fragilità dei sentimenti umani, mentre un intenso, straziante
epicedio, un canto funebre per la morte del fratello sacerdote, grida tutto lo
scandalo per l’assurdità della morte, di quella
morte.
Ed è l’ultima sezione della raccolta,
Elogio dell’anticonformismo, otto
poesie, a restituirci il Virginio Giovanni Bertini per noi più consueto: il
sindacalista, il compagno, con cui per anni, ci siamo confrontati, con cui
abbiamo organizzato insieme iniziative e promosso attività sempre alla ricerca
dei modi migliori per uscire dalle innumerevoli crisi che
hanno attanagliato il nostro essere sociale e politico. E anche per l’attuale
temperie storica, Virginio una sua ricetta pensa di averla e ce la suggerisce
in forma di versi. Di fronte alla catastrofe etica e culturale che sotto i
nostri occhi si disvela in tutta la sua devastante potenza, lasciandoci confusi
e disorientati, Bertini ci propone la prassi del fuorigioco. Ovvero il
chiamarsi fuori, inventare nuove regole di nuovi giochi. I giochi seri del
Potere e della Società a cui riguardare con occhi diversi: quelli della libertà
e della giustizia, della creatività, della affettività, della tenerezza, della
“simpatia piena d’amore” verso i deboli, i fragili, gli spossessati, i
perdenti, gli sconfitti di ogni latitudine per una nuova Internazionale, quella
degli ultimi. Se e quando questi diventeranno i primi dipende anche da noi,
dalla nostra capacità di rinnovarci, di parlare nuove lingue, di individuare
nuovi obbiettivi che valga davvero la pena di perseguire.
Questo, mi sembra che ci dica
Virginio. E lo fa usando la parola di una poesia fatta di musica, cantabile
secondo una cadenza incalzante, serrata, battente: il ritmo adeguato
all’urgenza dei problemi che ci stanno addosso.
Virginio Giovanni Bertini, Fuorigioco, Aletti editore, Roma 2014,
collana “Gli Emersi”, pp. 64, Euro 12,00
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