13 dicembre 2014

“Lettere a un amico pittore” di Vincent Van Gogh



di Gianni Quilici

Via via che leggevo Lettere a un amico pittore di Vincent van Gogh, scrivevo a margine noterelle che, parzialmente, qui segnalo, consapevole dell’inutilità di queste riflessioni (già risapute), ma come esercizio (per non perderle) ed anche perché ogni riflessione, pure risaputa, può avere un suo stile, quindi una sua necessità.

Primo: le lettere al giovane amico pittore Emile Bernard non sono frettolose, di circostanza e a direzione unica, ma un dialogo in cui Van Gogh si confronta, espone, racconta, domanda. Il tono è sempre amicale e soprattutto sincero. Sulle poesie e sugli schizzi di disegni, che Bernard gli invia, esprime opinioni non solo positive, ma anche negative, in modo a volte analitico, soprattutto per le poesie, sempre comunque motivando, incoraggiando.

Secondo: le opinioni di Van Gogh sono sicure e profonde, denotano una conoscenza letteraria e soprattutto una notevole cultura dei pittori su cui riflette e, come è noto, una eccezionale sottigliezza riguardo ai colori, alla loro individuazione, mescolanza e uso. Colpisce che consideri Vermeer, allora misconosciuto, come un pittore che rende tangibile l'infinito, che "nei suoi rari quadri ci sono a rigore tutte le ricchezze di una tavolozza completa". 

Terzo: anche nella scrittura van Gogh riesce a trasmettere “visioni” di bellezza, come quando scrive a proposito della corrida di Arles: “Però la folla era magnifica, le grandi folle variopinte, accalcate su due tre file di gradini con l’effetto di sole e l’ombra del cerchio immenso”, che potrebbe essere pure soggetto di una sua pittura; e meglio ancora quando descrive uno dei due disegni da lui fatti a penna:
“…una immensa campagna pianeggiante –vista a volo d’uccello dall’alto di una collina- delle vigne, dei campi di grano mietuti. Il tutto moltiplicato all’infinito, si allarga come la superficie di un mare verso l’orizzonte chiuso dalle montagnole della Crau”

Quarto: ha una visione della vita dalla parte dei più umili e indifesi. Scrive, a proposito dei colonialisti bianchi:
  I cristianissimi bianchi non hanno trovato di meglio che sterminare e la tribù degli indigeni-antropafagi e la tribù contro la quale la prima guerreggiava….Quando ne avremo abbastanza dell’orrendo bianco con la sua bottiglia d’alcool, il suo portamonete, il suo vaiolo? L’orrendo bianco con la sua ipocrisia, la sua avarizia e la sua sterilità. E quei selvaggi erano così dolci e così amorevoli!”
 La puttana, inoltre, gode  della sua simpatia più che della sua compassione e viene considerata dal grande pittore amica e sorella in quanto lei è un essere esiliato e un rifiuto della società come lo sono loro artisti. 

Quinto: Van Gogh sente il rimpianto per la “mancanza di spirito di corpo tra gli artisti, i quali si criticano, si perseguitano”(…), mentre invece “le difficoltà materiali della vita del pittore rendono desiderabili la collaborazione, l’unione dei pittori” (…), tanto più che “involontariamente le opere formano gruppo serie “ come sta succedendo ora tra gli impressionisti, “nonostante tutte le loro disastrose guerre civili…”.

Per ultimo: c’è, infine una visione esteticamente molto intrigante, che ricorda molto Martin Scorsese nei panni del pittore ne “I corvi” di Kurosawa, quando scrive:
  “ Lavoro anche in pieno mezzogiorno, in pieno sole, senza nessuna ombra, nei campi di grano, ed ecco, ne godo come una cicala”




Vincent van Gogh. Lettere ad un amico pittore (Lettres de Vincent van Gogh à Emile Bernard ). A cura di Maria Mimita Lamberti. Traduzione di Sergio Caredda. Bur Biblioteca Universale Rizzoli.

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