24 agosto 2015

"La giada cinese" di Raymond Chandler



nota di Gianni Quilici

Leggo uno dei primi racconti – anno 1937-  di Raymond Chandler “La giada cinese”, quando il suo detective privato si chiamava John Dalmes, antesignano, per molti aspetti, del detective forse più famoso della letteratura mondiale  Philip Marlowe, affascinante anche nel suono della parola.



Senza entrare nel merito del racconto (modesto) vorrei sottolineare un aspetto soltanto del suo stile narrativo: la distanza, ossia uno sguardo freddo innervato di un’ ironia grottesca spesso acida, che utilizza l’iperbole, tramite similitudini e metafore, e qualche volta forse anche abusandone.



Alcuni tra i diversi esempi possibili.

Ecco come tratteggia l’indiano Second Harvest, un tipaccio che farà una brutta fine:

… pareva colato nel bronzo…un nasone carnoso che pareva la prua corazzata d’un incrociatore… spalle d’un fabbro ferraio… dilatò le narici, già abbastanza larghe da farci passare una coppia di topi…

Oppure la segretaria di Soukesian, il metapsichico:

“…un sorriso secco, appassito, che si sarebbe polverizzato al tatto… le mani erano piccoline, brune, avvizzite, adatte agli anelli quanto le zampe di una gollina… 



Una distanza anche verso personaggi positivi, come risulta essere la ragazza, Carol Pride, che lo aiuta nell’inchiesta e che lo desidera; una distanza che attua innanzitutto il protagonista, John Dalmes, spavaldo fino alla provocazione, solitario ma amato, squattrinato ma incorruttibile, coraggioso e brutalizzato ma alla fine vincente. Una figura, che si presta, come sarà con Marlowe, alla mitizzazione  per il sottofondo di romanticismo che incarna. Ma questo è un altro discorso ben più profondo.



Raymond Chandler. La giada cinese. Traduzione di Attilio Veraldi. Il sole 24 ore. 






























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