nota di Gianni Quilici
Leggo uno dei
primi racconti – anno 1937- di Raymond
Chandler “La giada cinese”, quando il suo detective privato si chiamava John
Dalmes, antesignano, per molti aspetti, del detective forse più famoso della
letteratura mondiale Philip Marlowe,
affascinante anche nel suono della parola.
Senza entrare nel
merito del racconto (modesto) vorrei sottolineare un aspetto soltanto del suo
stile narrativo: la distanza, ossia uno sguardo freddo innervato di un’ ironia
grottesca spesso acida, che utilizza l’iperbole, tramite similitudini e
metafore, e qualche volta forse anche abusandone.
Alcuni tra i
diversi esempi possibili.
Ecco come
tratteggia l’indiano Second Harvest, un tipaccio che farà una brutta fine:
“… pareva colato
nel bronzo…un nasone carnoso che pareva la prua corazzata d’un incrociatore…
spalle d’un fabbro ferraio… dilatò le narici, già abbastanza larghe da farci
passare una coppia di topi…”
Oppure la
segretaria di Soukesian, il metapsichico:
“…un sorriso
secco, appassito, che si sarebbe polverizzato al tatto… le mani erano
piccoline, brune, avvizzite, adatte agli anelli quanto le zampe di una
gollina…”
Una distanza anche
verso personaggi positivi, come risulta essere la ragazza, Carol Pride, che lo
aiuta nell’inchiesta e che lo desidera; una distanza che attua innanzitutto il
protagonista, John Dalmes, spavaldo fino alla provocazione, solitario ma amato,
squattrinato ma incorruttibile, coraggioso e brutalizzato ma alla fine vincente.
Una figura, che si presta, come sarà con Marlowe, alla mitizzazione per il sottofondo di romanticismo che incarna.
Ma questo è un altro discorso ben più profondo.
Raymond Chandler. La giada cinese.
Traduzione di Attilio Veraldi. Il sole 24 ore.
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