di Emilio Michelotti
E' uno dei romanzi più letti e dibattuti del Novecento italiano. Perché parlarne ancora? Perché, similmente al topazio di cui vi si narra (della contessa Menegazzi-menacazzi), ha molte sfaccettature, come le ha la psicologia di Don Ciccio (il malinconico commissario Ingravallo, per il quale “le catastrofi sono un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo”), la sessualità di Liliana Balducci (la bellona assassinata in questa parodia del giallo), e delle sue “nipotine” servizievoli: Virginia – la probabile assassina dalla “pubertà facinorosa” -, Assunta, Milena, Gina, tutte dalla “sensibilità diffusa e delicata ovaricità” . Sì, perché “Er pasticciaccio” sta a questo genere come il testo di Cervantes ai romanzi cavallereschi: irrisione e ammiccamento. Se ne può parlare ancora perché, come accade ai libri insoliti, unici, ognuno vi può trovare del nuovo, dell'originale e, come in un brano di musica classica, ultraeseguito, ogni lettura svela parti segrete.
Il narratore (soggetto nascosto) ha uno sguardo vivisezionatore, lucido, implacabile, ravvicinato, analizzatore (da ingegnere elettrotecnico quale Gadda era) sulla sfarzosità del barocco romano. E ne è contagiato: l'oggetto permea di sé il soggetto, come sempre. Sono occhiate ironiche, beffarde, quelle del Gadda, e a tratti innamorate, ma anche inquiete e inquietanti, maniacali, come quelle, quasi necrofile, sul “segno carnale del mistero”, sulla “solcatura di voluttà” che Ingravallo accarezza con gli occhi sul cadavere di Liliana Balducci.
Occhiate espressioniste (quindi deformate): su un barocco che, com'è ovvio, si nutre di classicismo. Ma di una classicità teatrale, stravolta, insistita, esasperata, un po' stucchevole nella sua ridondanza esibita. E geniale. So poco del Belli, ma è l'autore stesso a citarlo come ispiratore. A chi distingue ancora fra forma e contenuto (io direi “sostanza”, ma ci s'intende) rivolgo l'invito a ripensarci. C'è una forma diversa per dire quel che a Gadda urgeva dire? Se tutto appare costruito (e lo è), dalla lingua – raccattata qua e là, in quasi tutti i dialetti della penisola e filtrata in neologismi vertiginosi – alla sintassi, fino agli aspetti morfologici e semiotici, hai l'impressione di una costruzione razionalissima, per nulla arbitraria, perfettamente logica e coerente nella sua follia.
Come fosse uno sguardo su una tela seicentesca, dai riccioli dorati della cornice, ai personaggi rappresentati (scalzi, nudi, sporchi o nelle vesti sontuose del trionfo), ai paesaggi cupi o illuminati da una luce accecante, la lente che ne ingrandisce i particolari svela a tratti nuvole strapazzate da tempeste o nitori cristallini. Oppure come fosse l'indagine di un dipinto fiammingo, mettiamo le “Quattro visioni” di Hieronymus Bosch che Gadda avrà analizzato a Palazzo Ducale di Venezia, o la “Veduta del porto di Napoli” di Brueghel il Vecchio che sta proprio a Roma, a villa Doria-Pamphilj. Anche lì, come nel “Pasticciaccio”, il particolare diventa ossessivo, intrigante, spiazzante. Oppure come in un'incisione di Piranesi, il “Portico d'Ottavia” o “Piazza del Pantheon”, con popolani e straccioni accostati a rovine maestose.
Dicevo della classicità, e teatralità: dai nomi virgiliani (Enea, Ascanio, Anchise) o della romanità (Venere, Diomede, Clelia, Camilla), alla chiamata in causa della musa Melpòmene, in riferimento alle galline, come sue ex alunne, alla trasfigurazione del popolo romano in coro da tragedia greca.
Un continuo slittamento dal basso verso l'alto del linguaggio, quasi una neolingua formata da vocaboli spuri, presi in prestito da varie discipline tecniche e argutamente “risciacquato” con inserimenti vernacolari anche fiorentini. Ambientato nel '27, è anche un (tardivo) sbeffeggiamento del Regime del Mascellone e dell'ambiente popolare che lo sosteneva, un sottobosco spiato con disgusto misto a pietà. I “fatti” hanno poca importanza, ne ha molta il modo nel quale vengono raccontati. Due “delitti”, un furto e un omicidio, s'intersecano e si sdipanano avvinghiati. Ho detto “tragedia”, però è tragedia mimata, dove tutto è rappresentato e quindi nulla ha un peso.
E ora vorrei dire soprattutto del “pandemonismo della terra intera” (animismo, se si preferisce) e dei suoi oggetti biologici o meccanici. Sono daimones talvolta benevoli. La campana di Santa Maria Maggiore è animata da uno spirito di protezione:
“Intrappolata dentro il suo gabbione, la campana grossa de li scolari principiò dondolare a sua volta, dagio adagio, con un fremito quasi inavvertito in sulle prime, con un rombo tuttavia sospeso nei cieli, come d'un'ala metallica. L'onda si dilatava lieta sui penzieri, sui terrazzi, ne vibravano i vetri chiusi delle case, ogni più addormita finestra. Una vecchia nonna su la canofiena, che prendesse ritmicamente l'aìre: e grattugiava fuori il suo susurro dolce e un tantino acquoso...Vrùn, vrùn, vrùn, vrùn!...quer segnale de calabrone a pendolo t'oo mollava con tutto er core, a ogni corpo de tutto culo che je dava, da poté pijà la spinta in avanti...Quella perorante cautela avvicinava il male per gradi, in una modulazione sommessa:..il male del ridestarsi a conoscere e a rivivere la verità d'ogni giorno...Ce durava na mezz'ora a cresce, dagio adagio, e n'antra mezzora a piantalla.” (cap.X)
La bicicletta del brigadier Pestalozzi (nome carabinieresco) è “una scatola di musica cro-cro, macchina dei denti rotti da sgranocchià il torrone”, i cani, figure demoniache dai “sanguinolenti occhi di belva”, dalle “bocche come spelonche d'inferno”, le galline “spiritate sofonisbe” e il treno (tutto nero) come vortici demoniaci , mentre “da un olmo giungeva l'appello implorante del cucù”.
“La sagoma affumata del trenetto rimpicciniva in quel momento verso un arco lontano: accreditò di sé, del suo vanire, la fuga prospettica delle due rotaie convergenti: e somigliò il Nero Personaggio, e la garitta del vagone di coda il codònzolo, allorché ha licenza dalla incantatora e dispare con un sibilo a' suoi portici, sotto nero archivolto, nel monte: e nel silenzio della campagna e nel muto stupire delle cose, d'un'impronta di piè di capro è rimasto al sollo il sigillo, e poco solfo per l'aria” (cap.X)
E, ancora, le streghe nel loro antro, il “laboratorio” della Pacori Zamira “alli Du Santi” (otto incisivi mancanti): una sorta di cantina-bettola con funzioni di rammendo e recupero di vecchie maglie e tessuti, oltre che di divinazione e lancio-allontanamento di malocchio e sortilegi, vaticini e responsi. Due o tre “rammagliatrici”, tenere novizie con facoltà di prestazioni extra per carrettieri dell'Appia e carabinieri in perlustrazione. E una gallina, legata con uno spago, eccitata e scachicchiante, completa il quadro. Ovviamente fra questo sottomondo urbano e i delitti del quartiere medioborghese il legame c'è: le “piccole rammendatrici” hanno i loro “fidanzati”, o amorazzi vari, ragazzotti bulli e squattrinati, disposti a “a delinquere” per pochi spiccioli o, magari, per manciate di gioielli custoditi in appartamenti tutt'altro che inviolabili.
E' stato rilevato che l'uccisione di Liliana da parte di una quasi-nipote è un mezzo-matricidio, come nella “Cognizione del dolore” la morte per mano del figlio è soltanto suggerita. Intrecci drammatici, giochi intellettuali e ironia sui medesimi si mischiano senza tregua, soprattutto a partire dall'VIII capitolo, il più famoso, dove umorismo e tragedia si alternano. L'incipit è una grottesca modificazione del cap.IV dei Promessi Sposi, cui segue una descrizione “manzoniana” di Roma mattutina. E' il capitolo dell'intervento della gallina guercia della Zamira, “come evocata di tenebra”. Da qui alla fine del romanzo è un crescendo d'invenzione linguistica e di virtuosismo stilistico. Su tutto sovrasta l'onnipresenza di Zamira, punto d'incontro delle forze negative del romanzo, l'altro polo era occupato da Liliana, ingenua e perennemente addolorata per non aver figli. Le altre donne stanno per l'inerzia e l'istinto. L'unico valore riconosciuto è il maschile. Ma le donne sanno quel che cercano, i maschi no, ad eccezione del commissario Ingravallo, che ha piena coscienza di sé: sa di non piacere alle donne e s'è rassegnato. E' l'osservatore, il moralista, l'unico che agisce ponendosi problemi esistenziali. E' un romanzo per iniziati e per raffinati. È un vero rebus intellettuale.
Concludo con una dichiarazione dell'autore a proposito delle sue scelte linguistiche:
“La lingua dell'uso piccolo-borghese, puntuale, miseramente apodittica, stenta, scolorata, tetra, eguale, come piccoletto grembiule casalingo da rigovernare le stoviglie, va bene, concedo, è lei pure una lingua: un “modo” dell'essere. Ma non può diventare la legge, l'unica legge”. (In “Lingua letteraria e lingua d'uso”)
Carlo Emilio Gadda – Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. - Garzanti, 1957
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