24 novembre 2020

“Chicco di Naso” di Claudio Orsi

 


di Elisa Bertoni

 Chi ha ucciso Liliana? E' la domanda che il lettore si pone fin dall'inizio del romanzo che sarebbe tuttavia molto riduttivo considerare semplicemente un giallo. E' soprattutto un romanzo di costume, un prezioso “carosello” in cui incontriamo, come risorti nel presente della memoria, gli oggetti che hanno fatto un'epoca, l'Idrolitina Garzoni, la Vespa, la Moto Morini Corsaro 125, la Necchi elettrica per cucire, il Rum Nardini per correggere il caffè, la racchetta da tennis Maxima, l'album dei calciatori edizioni Lampo, il fumetto Topolino e le scarpette da calcio Adidas: l'oggetto che fa consumo, cantato e decantato nella marca che lo rappresenta, comincia ad affacciarsi con i suoi irresistibili allettamenti nella vita delle persone senza distinzione tra grandi e piccini. Le nuove abitudini come mangiare la insipida grandinina in brodo di dado o guardare le comiche di Ridolini, il quiz Lascia o Raddoppia, il Festival di San Remo e la Tv dei ragazzi convivono con il bisogno antico di riunirsi per giocare a tombola e di affidarsi ad una soprannaturale energia che spinge ancora a venerare l'immaginina di Padre Pio, a consultare devotamente il calendario di Frate Indovino e a rispettare con cura il lunario del Sesto Cajo Baccelli.

E' dunque lo spaccato di una società come quella italiana degli anni '60 che cercava con qualche sforzo di lasciarsi alle spalle gli anni cupi di un fascismo ancora lontano dall'essere del tutto tramontato, con le contraddizioni di un mondo che tentava di aprirsi all'innovazione e al progresso, nonostante radici profondissime che lo legavano alla terra. E profumano di terra molte pagine del libro grazie alla sapienza contadina di molti dei suoi protagonisti, come nonno Elia, che fatica ad integrarsi a pieno nel nuovo paesaggio di Coltano, ormai spersonalizzato nella monotonia di campi di ventitré ettari, tutti uguali, in una uniforme piattezza in cui difficilmente può abituarsi la mobile vivacità dell'essere umano. A lui, memoria storica dell'anziano, è affidata la possibilità di rinascita di una società nuova, rappresentata dalle piante di granturco di qualità superiore, che quasi per magia vengono su vigorose dopo che un chicco è germogliato nel naso di Massimo, il più piccino. Un chicco, chicco di naso, appunto, lega le generazioni, nella speranza che anche le ingiustizie della storia prima o poi trovino un giusto risarcimento in una umana solidarietà sociale, di cui beneficerà anche l'innocente finito in prigione. Il fatto che il testo si chiuda con la frase “E il '68 era alle porte” è indicativo di questo forte bisogno di appellarsi al nuovo, in un rivolgimento che possa scuotere una volta per tutte le coscienze ancora un po' addormentate degli italiani.

Tornando alla vicenda, essa ha il suo centro narrativo proprio nella casa cantoniera dei Mortellini, che spiccava per il suo giallo delle pareti, e che diventa il luogo in cui, quasi per un destino inscritto nel colore, ha inizio il giallo: in un appartamento di quel complesso residenziale viene uccisa Liliana. E' a partire da quella casa che si intrecciano le storie dei personaggi in una polifonia di racconti e punti di vista che rivela l'abilità del narratore, capace di variare con sapienza la lente con cui si guardano i fatti, utilizzando ora gli occhi di un bambino, ora quelli di una ragazza, ora quelli di un adulto, uomo e donna, ora quelli di un vecchio; questa polifonia è una ricchezza nel testo perché la realtà è dipinta come se si potesse gustare nel suo intreccio domestico di voci, senza che sia necessario farne propria una in quanto giusta. Si dipinge la vita così com'è, con una comprensione bonaria e affettuosa dell'animo dei semplici, senza che questo si trasformi in un paternalismo buonista, in una aprioristica idealizzazione del “popolare”, ritratto anche nelle sue contraddizioni, tra slanci di solidarietà e moralistiche piccinerie, tra saggezza dei sentimenti e istinti incontrollati.

In quella casa Liliana era già di per sé un'esclusa per il suo stile di vita lascivo e dissoluto; eppure dai pochi tratti con cui è dipinta ne esce una figura affascinante, una Madame Bovary di Coltano, vittima del destino ancor prima di essere uccisa, per la prepotenza del sogno da lei intimamente coltivato di fronte all'asfissia dell'esistere.

La casa cantoniera dei Mortellini è dunque il collante narrativo da cui si sviluppano le vite delle varie famiglie tra speranze, amori, inquietudini, aspirazioni politiche e riscatti economici, un po' come nel romanzo Cronache dei poveri amanti di Vasco Pratolini, dove è una via di Firenze, via del Corno a rappresentare il luogo dell'intreccio delle storie dei vari personaggi sullo sfondo della storia del fascismo e dell'antifascismo vissuto dal basso, da parte della gente povera.

La preminenza del paesaggio coltanese, con alcuni richiami alla città di Lucca e ai suoi dintorni, non esclude tuttavia un'apertura ad altre aree di Italia, da cui provengono alcuni personaggi, come il Lago Trasimeno, il Veneto e la Sicilia. Questo contribuisce a creare anche un pastiche linguistico, dal momento che nonno Elia, il figlio Franco, la nuora Gina ed il nipote Vincenzo hanno uno spiccato accento toscano, colorito da espressioni icastiche che danno alla lingua il sapore delle cose vere, come bronciolare, sputazzo, scortecciare, gronciolo di pane, nocello, orbao, il peoro, il buodiulo, stinchipilinchi, accanto a detti quasi proverbiali come “l'arco è di fio”; Bruno Rezzato e la moglie Ofelia, provenendo dalla provincia di Padova, si esprimono nel dialetto veneto, mentre il dottor Agostino Giammona, incaricato delle indagini, detto Austineddu, che proviene da Giarri in provincia di Catania, non esita a ricorrere all'intraducibile saggezza di una massima siciliana: “Quanno 'u piru è fattu casca sulu”. Il narratore lascia dunque ai suoi personaggi il diritto di potersi esprimere liberamente col proprio idioma nella consapevolezza che il linguaggio ci rappresenta e che ci si può comprendere ed essere amici senza per forza rinunciare alla peculiarità delle proprie radici. Uguaglianza non significa affatto appiattimento, ma comprensione nella diversità che arricchisce anche attraverso le variegate sfumature dialettali. Quando poi lo spazio narrativo sulla scia delle indagini si sposta in Marocco, il testo si arricchisce di termini quali hijab, djellaba, kif, gnawa, tajine, kaab el ghzale che testimonia un'attenzione veristica dell'autore a dare il nome proprio alle cose, per non snaturarle.

La presenza di un pastiche linguistico inserito nella trama di un giallo potrebbe ricordare il capolavoro gaddiano Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Del resto è l'autore stesso, Claudio Orsi, a richiamarlo nell'incipit del capitolo 5. Anche nel romanzo di Gadda muore una Liliana, anche lei una donna sposata senza figli, su cui aleggia un'ombra densa di solitudine e malinconia. Tuttavia Chicco di naso potrebbe addirittura definirsi stilisticamente antigaddiano. Se nell'autore milanese la lingua barocca e ingarbugliata rende difficile anche ad un lettore non ingenuo penetrare nel significato che diventa sempre di più una matassa inestricabile al pari del caso da risolvere, riflesso di un mondo ridicolo pur nella sua atrocità incarnato dal Fascismo, in questo romanzo i fili diversi riescono a correre su binari paralleli senza creare grovigli di incomprensibilità. Il lettore sfoglia le pagine senza intoppi, senza che la mancanza di un vero protagonista lo disorienti. L'Italia è uscita a fatica dal Fascismo e le varie voci che la caratterizzano, dopo tanta censura, hanno il diritto di poter convivere, lasciando ad ognuna la propria personalità, che ora ha bisogno di parlare dal basso della sua autenticità e non da pulpiti di esaltata mediocrità. Ecco che nel testo troviamo storie nelle storie, come il racconto di Franco sulla Resistenza e sulla vita di Galileo e quello di Elia sulla vita di Santa Zita: il bisogno del racconto orale che lega, senza la pretesa di una verità assoluta e precostituita, eppure una voce importante che costruisce e sedimenta memorie. Queste digressioni non sono tuttavia fuorvianti e non sviano il lettore dalla traccia dominante della trama che è nello stesso tempo la scoperta dell'assassino (primo livello di lettura), e il bisogno di una società nuova e autentica, in cui sia la pluralità a parlare (secondo livello di lettura).

E' il momento storico in cui si deve provare a ricreare un'armonia dopo la “disarmonia prestabilita” presente in Gadda, specchio di un'epoca capace di disorientare le coscienze nell'urlo di quel mantra distruttivo “W il duce”, voce coatta di cervelli omologati divenuti inutili gomitoli senza capo né coda, incapaci di costruire la propria veste di libertà. La pannocchia di qualità superiore è un simbolo forse inconsapevole dell'unità nella pluralità di chicchi, come dovrebbero essere gli italiani, capaci di seminare e produrre il nuovo, nella ricchezza di una cultura, quale appunto nello specifico quella italiana, che ha nella pluralità la sua vera identità.

Antigaddiano dunque per il momento storico che si avvia ad una svolta rispetto al passato. Non stupisce dunque che Franco, quando comprende che le accuse sono rivolte ad un amico, esclama: “...Gira e rigira si è messo in un bel pasticcio...”. Quer pasticciaccio brutto diventa il “belpasticcio”...quasi un aggettivo antitetico a marcare ormai, anche se involontariamente, la distanza tra i tempi: fascismo e postfascismo, sebbene più di diritto che di fatto.

Due voci si levano forse tra tutte, regalando sprazzi della loro filosofia di vita, costruita sull'esperienza più che sui libri: Franco e Austineddu, curiosamente entrambi, come Liliana, destinati ad un tragico destino. E di destino parla proprio Franco, quando racconta la storia della “bodda”, che potremmo intitolare “la fatalità del rospo”. Franco una mattina salva un rospo mentre provava ad attraversare un tratto trafficato dell'Aurelia, con la fine certa di venire schiacciato. Lo libera tra i solchi dell'orto, ma nel pomeriggio mentre falciava l'erba si accorge di averlo infilzato. Da ciò ricava l'idea che l'uomo deve imparare ad accettare il proprio destino quando si accorge che non è possibile cambiarlo. Sempre Franco dialogando con il figlio lo sprona a verificare di persona, gli eventi della vita e per fare questo è necessario avere coraggio: “...ci vuole il coraggio della ricerca, ci vuole la voglia di sapere la verità e non accontentarsi di prendere per buona la prima cosa che ci dicono...”.

Austineddu dal canto suo si rivela un poliziotto sui generis. Mentre è a Marrakech e dialoga con Hamada afferma: “Per venir fuori da una situazione difficile...non si deve cedere all'istinto di ricorrere alla forza. Basta essere consapevoli di averla la forza, senza bisogno di usarla...Lì è la soluzione: la consapevolezza contro l'istinto”.

La libera ricerca contro l'indottrinamento, la consapevolezza contro l'istinto: su queste due basi suggerite da due voci distinte del romanzo dovrebbe dunque costruirsi la nuova Italia. Voci distinte che soccombono tuttavia beffardamente al destino che non si può capire e alla violenza che prevale sulla consapevolezza.

Un libro dunque un po' neorealista, un po' fiabesco, un po' grottesco, per quella sua aria scanzonata che aleggia anche sul tragico e salva l'uomo, grazie al distacco dell'ironia, dall'abisso dei suoi errori e dai colpi imprevedibili della sorte. Sembra a tratti di cogliere il sorriso del narratore che gioca con i suoi personaggi, a volte anche in modo canzonatorio, come sul finale quando l'indizio rivelatore che potrebbe schiacciare l'assassino viene equivocato con surreale ottusità.

E l'assassino? L'assassino confesserà impunito, secondo una tecnica che può ricordare in parte il capolavoro di Agatha Christie, Dieci piccoli indiani. Una confessione che farà al lettore e non agli inquirenti, e che può spaventare nelle sue conclusioni che ribaltano etiche condivise: “Verrà un giorno in cui gli uomini saranno giudicati per i loro sogni e non per le loro azioni: allora io sarò assolto”. Assassino e vittima diventano pertanto uniti dalla tragicità del sogno che lungi dal concretizzarsi in una felicità che anima la vita, conduce la prima a morire e l'altro ad uccidere, ad uccidere senza rimorsi né pentimento. Una voce, quella dell'assassino, quasi urtante, scomoda, fastidiosa perché nella sua immoralità alla fine non sembra immorale. Ancora una volta colpisce l'assenza del giudizio del narratore che fa riflettere sulla complessità dell'umano e di un'etica oltre l'etica costituita.

Ma alla fine, qual è il sogno che porta alla felicità, alla speranza di rinascita?
La risposta, sebbene mai esplicitamente data ed anzi quasi nascosta dalle voci affascinanti che vorrebbero tacitarla, è questa: il sogno che può attuarsi non è né quello basato sull'opportunismo materialistico che calpesta i sentimenti dell'uno per raggiungere cinicamente i propri desideri, né quello di chi non valuta realisticamente la persona che ha di fronte, sostituendo all'autenticità una sterile illusione.
Il vero sogno che può realizzarsi è quello del chicco di naso: la pannocchia della pluralità.

 Claudio Orsi. Chicco di naso.Aletti editore.

Nessun commento: