02 gennaio 2023

" Rossa e plebea" di Luciano Luciani

 

Pisa, mezzo secolo fa

di Elisa Bertoni 

       Un libro autobiografico finisce spesso per essere autoreferenziale e, se anche rinuncia alla incombente seduzione di celebrare le eventuali glorie meritate sul campo dal suo autore-protagonista, rischia di restarsene pur sempre chiuso nell'asfittico recinto del sé. Non è il caso di Rossa e plebea, Pisa, mezzo secolo fa di Luciano Luciani: un libro aperto, vuoi per uno stile accattivante grazie al ricorso di aneddoti intrisi di sagace ironia, sempre capace di assicurare l'essenziale distacco dal fatto narrato, vuoi per il contenuto che nasce dagli inevitabili e necessari incontri che capitano a chi si mette in viaggio da solo; quel libro è esso stesso un incontro e spinge a continuare il dialogo, a raccogliere la voce preziosa che si leva da quelle pagine per metterla in comunicazione con i tanti interrogativi che spesso si aggrovigliano nella mente di ciascuno, come nella mia.

       Sono nata nel gennaio del 1973, anno cui è dedicato lo spazio più ampio nel libro. Quando si è neonati non si ricorda, ma si respira un clima che rimarrà attaccato sulla pelle in modo inconsapevole e non per questo meno vitale. Luciani è stato in grado con abilità involontariamente maieutica di riaccendere quei barlumi che si aggiravano intorno alla mia culla assieme alle apine della Chicco, permettendo con la sua memoria di allargare anche la mia che per contiguità temporale dovrebbe raccoglierne il testimone-testimonianza, e ancora di più quella di quanti ben più giovani e lontani da quel mondo possono colmare i vuoti di conoscenza. Un libro che si nutre anche della vocazione pedagogica dell'autore, insegnante anche se non lo fosse divenuto, per quel desiderio di mettersi a disposizione comunicando e rimanendo fedele non tanto ad un ideale, quanto all'autenticità del ricordo, regalato ai lettori nei suoi contorni netti, senza abbellimenti partigiani o retorici.

       E a Pisa, meno rossa e plebea di allora, e senz'altro più globalizzata e popolata di fast-food per giovani e costellata di banchetti-souvenir per turisti internazionali, ho studiato negli anni '90, alunna di professori come Riccardo Di Donato, ricordato per la passione pedagogica con cui cercava di far dialogare le visioni più estremiste della sinistra con le posizioni dei cattolici e dei socialisti sulla linea del compromesso storico voluto da Berlinguer. Passione certamente non svanita negli anni: rammento con vividezza l'invito che Di Donato stesso porse a noi corsisti di antropologia greca per una merenda a casa sua poco prima di Natale, manifestando un'apertura ed un interesse alla relazione raro in ambito accademico e permettendo che si respirasse a distanza di secoli qualcosa di affine ad un discepolato fuori dagli schemi di matrice socratica. Per non andare a mani vuote gli regalammo una stella di Natale enorme, come la sua statura, fisica, morale e culturale, che incuteva un certo timore negli alunni più piccoli, e rossa, naturalmente rossa.

      Con vivo piacere ho letto poi il capitolo dedicato all'allora sindaco di Pisa Elia Lazzari, marito di Maria Luciana Colombini -una delle ultime sopravvissute al rastrellamento della Romagna nell'estate del '44, di cui ho potuto ascoltare di persona la toccante testimonianza- e padre di una collega del Liceo Vallisneri, che ancora cerca di far rivivere tra i banchi la lezione di umanità ricevuta dal genitore, preside della scuola media di Calci. Luciani, chiamato da Lazzari per una supplenza, ricorda la breve esperienza come un indimenticabile apprendistato sul campo: “a quei cuccioli d'uomo che la società e i genitori fiduciosi ti affidano perché tu li aiuti nella loro formazione, prima di ogni ardita teoria educativa, prima di ogni complicatezza didattica, occorre voler bene in ogni caso e che chi è più grande ha il dovere di prendersi cura di chi è più piccolo. Insomma, per dirla col bilioso Giovenale, che pure ogni tanto ci coglieva, Maxima debetur puero reverentia ”.

        Un libro dunque che ricordando ha suscitato ricordi e raccontando stimolato racconti: perché ciò che diciamo “mio” è sempre inevitabilmente un “nostro”.

       L'autore, parlando di sé in tono scanzonato, ma mai scontato, dando valore alle piccole cose, se non di pessimo gusto non necessariamente selezionate per il loro buon gusto, aiuta il lettore a non trascurare nulla di quello che appartiene alla propria vita. Il buon gusto è assicurato dalla assoluta padronanza della lingua che non si lascia mai scappare nulla di gratuito e dalla bonarietà del tono che vuole adattarsi alla realtà narrata senza che ne risulti una testimonianza edulcorata dalle restrizioni moralistiche della memoria. “Ai miei tempi...” a quei tempi c'era il buono ed il cattivo di ogni tempo.

       Tuttavia c'è forse uno specifico della stagione che fa da cornice agli episodi raccontati: la fede nella strenua lotta per l'uguaglianza contro ogni ingiustizia e disparità, la speranza di rinnovamento sociale dopo le aberrazioni della guerra, la carità che muoveva gruppi più o meno organizzati di persone a prendersi cura dei ceti più umili, con la realizzazione di conquiste e opere concrete di cui ancora oggi ci avvantaggiamo. Fede, speranza e carità da virtù teologali rivolte ad un Dio per salvarsi l'anima diventano forze laiche per costruire un mondo giusto sulla base di uno sprone originatosi nel cuore stesso della politica, nel senso più vicino alla sua etimologia, nel senso cioè di quanto appartiene ai cittadini e che, come tale, deve essere di tutti. Confrontando le vicende attuali di crisi energetiche e pandemiche con episodi come quello narrato nel capitolo intitolato “El pueblo unido, jamás será vencido”, sulle restrizioni decretate per contenere i consumi petroliferi al termine della guerra del Kippur, colpisce l'esperienza comune del silenzio irreale nelle strade: “quel silenzio strano, ignoto a tutti, di strade e piazze, senza rumori di automobili, frastornava e un po' inquietava”. Ma l'intorpidimento letargico imposto dal Covid 19 o l'incredibile impennata dei prezzi del gas come conseguenza della guerra tra Russia e Ucraina non sono stati in grado di accendere la fede di allora, alias illusione, nella forza trainante di un popolo compatto che sventola le sue bandiere di unità, che trova la sua invincibilità nel sentimento dell'amicizia. A catturare l'attenzione dei media è stata la dea Discordia: hanno fatto più notizia le divisioni tra pro-vax e no-vax e ancora tra putiniani e sostenitori dell'invio di armi in Ucraina piuttosto della ricerca di un fronte comune di dialogo e collaborazione costruttiva.

         Si legge nel testo di Luciani: “Incancellabile nella mente e nel cuore, allora come oggi, la sensazione […] di essere amici e invincibili, invincibili perché amici. Anzi, di più: fratelli. Anzi, di più ancora: compagni! E quindi immortali, eterni...”. Senza l'orizzonte di un'utopia vissuta come possibilità di reale progresso umano il mondo rimane diviso ed isterilisce nei falsi miti delle “magnifiche sorti e progressive”.

      Non è un libro di storia, anche se la Storia, quella con la esse maiuscola, c'entra molto, costituendo lo sfondo implicitamente ed esplicitamente sempre richiamato; è piuttosto un libro di storie che permettono “di attingere a sorgenti perenni e straordinariamente fresche di umanità, intelligenza, condivisione e solidarietà, utopia e pratico buon senso”. Questo è uno dei meriti che maggiormente gli si possono riconoscere: quegli anni sembrano riaccendersi come in piccoli teatrini che si animano nelle vie, nelle case del popolo, nei corsi di formazione professionale e nei doposcuola, nelle feste dell'Unità e nelle case dei compagni con la loro adesione ad un comunismo che si potrebbe definire se non antiideologico senz'altro preideologico, cioè non appesantito dalle rigide strutture del partito e animato da un ingenuo eppure autentico desiderio di armonia sociale, di lotta alle ingiustizie e di tentativo più o meno riuscito di dare dignità alle classi emarginate.

       Un libro che sarebbe stato apprezzato anche da Manzoni perché Luciani, rinunciando ad imbalsamare con l'inchiostro “le imprese de Prencipi e Potentati” si è rivolto piuttosto alle “genti meccaniche e di piccol affare”, senza neppure aver bisogno di “fatti memorabili” per permetterci di gustarne la quotidianità a volte meschina a volte di stupefacente generosità e dedizione che ha caratterizzato la Pisa rossa e plebea dei primi anni '70.

Luciano Luciani. Rossa e Plebea. Carmignani editrice

Nessun commento: