01 marzo 2015

"Roma. Mille anni di belle donne" di Luciano Luciani





Lucrezia Borgia
Critico equilibrato e severo delle cose d’Italia di due secoli fa, James Fenimore Cooper (1789 – 1851), il celebre scrittore della frontiera americana, autore dell’Ultimo dei mohicani (1826), di passaggio per Roma, tappa di un suo più lungo tour europeo, non poté esimersi da un sincero omaggio di fronte allo spettacolo dell’avvenenza delle donne della Città eterna.

         Sono stato colpito dalla bellezza singolare delle donne incontrate per le strade di Roma nell’ultima settimana di Carnevale. Quasi tutte appartengono al ceto medio; ma, siccome si fanno vedere in pieno giorno, non possono avere addosso molti artifici. Hanno tutta la delicatezza delle donne americane, ma hanno seni e spalle più belli, e non mancano affatto di colorito. Hanno un’aria singolarmente femminile e modesta.

Un giudizio ammirato che lo scrittore “barbaro” giunto nella capitale del cattolicesimo da un mondo lontanissimo condivideva con legioni di artisti e letterati, cronisti e viaggiatori passati per l’Urbe negli ultimi mille anni almeno. La Città dei Papi, opulenta e affamata, miserabile e doviziosa, si rifletteva anche nell’aspetto esteriore delle sue donne e nei loro comportamenti: ora è la seduttiva e spregiudicata Marozia (892 – 955), “bella come una dea e focosa come una cagna” a incarnarne l’intima essenza, ora tocca alla dissoluta e tribolata Lucrezia Borgia, “Venere per l’aspetto” e figlia di un pontefice a riassumere nei suoi successi mondani e nei dolori privati la natura profonda di una Roma caput mundi, anzi caput munni, santa e plebea, disincantata e superstiziosa, indifferente e passionale. A Roma stanno bene preti, frati, puttane e abbati suona un antico adagio romanesco confermato dalla fortuna pubblica delle celeberrime cortigiane Fiammetta, Imperia, Tullia d’Aragona, che non conobbero, però, un destino personale altrettanto propizio. No, le donne, soprattutto se belle, non hanno fortuna a Roma, specialmente se all’avvenenza e al fascino uniscono ambizione e intraprendenza, coraggio e mancanza di scrupoli. È il caso di Teodora (870 – 916) e delle sue due figlie Marozia (892 – 937) e Teodora II, a cui il potere maschile non perdonò di avere infranto un millenario dominio di genere. Così una storiografia tendenziosa presenta Teodora come “una sfacciata puttana… che chiavava preti e cardinali per governare e ottenere favori” e tutte e tre le donne come protagoniste di quel governo delle prostitute che resse le sorti di Roma per i primi trent’anni del X secolo. Né andò meglio, mezzo millennio più tardi, a due nobildone, Vittoria Accoramboni (1557 – 1585) e a Violante Carafa d’Afile che pagarono con la vita il coraggio di darsi un amante; a Beatrice Cenci che allo stesso modo scontò il tentativo di liberarsi da un padre-padrone; ad Artemisia Gentileschi (1593 – 1653) che espiò con l’allontanamento da Roma la propria originalità artistica.

La bellezza delle donne romane, cos’è?

La bellezza. Concetto effimero, volatile quello della bellezza. Soggetto al mutare del tempi, dei punti di vista, delle mode. Il giudizio estetico è sempre singolare e soggettivo e non è possibile stabilire una volta per tutte ciò che è bello sempre e comunque. In cosa consiste, dunque, questa tanto decantata bellezza delle donne romane? Dopo circa un millennio di enunciazioni più o meno vaghe, Gigi Zanazzo (1860 – 1911), studioso delle tradizioni del popolo romano e poeta romanesco a sua volta, propone finalmente un canone largamente condivisibile e minimamente obbiettivo:

Sette bellezze cià d’avé la donna
prima che bella se possi chiamà:
arta dev’esse, senza la pianella,
e bianca e rossa senza l’alliscià.
La bocca piccolina e l’occhio bello
Grazziosetta dev’esse ner parlà:
larga de spalle e stretta in centurella
quella se pò chiamà na donna bella:
larga de spalle e stretta de cintura
quella è na donna bella pe natura.

Certo, ben più sanguigno nei suoi canoni estetici e senza alcuna pretesa di fornire una precettistica si era dimostrato Giuseppe Gioacchino Belli:

A NINA

Tra ll’antre tu’ cosette che un cristiano
ce se farebbe scribba o fariseo,
tienghi, Nina, du’ bbocce e un culiseo,
proprio da guarnì er letto ar gran Zurtano

A cchiappe e zzinne, manco in ner moseo
sc’è robba che tte po’ arrubbà la mano;
chè ttu, ssenz’agguantaije er palandrano,
sce facevi appizzà Ggiusepp’ebbreo.

Io sce vorrebbe franca ‘na scinquina
che nn’addrizzi più tu ccor fa l’occhietto
che ll’antre cor mostrà la passerina.

Lo so ppe mmè, cche ppe ttrovà l’uscello,
s’ho da pisscià, ciaccènno er zoccoletto:
e lo vedessi mò, ppare un pistello.
(1831)

Profonde le differenze tra il garbo controllato del primo e la densità materica quasi espressionista del secondo, che assumendo come proprio il punto di vista della plebe romana non può che servirsi di un mondo di immagini e di un lessico grevi, triviali, osceni.
In un altro sonetto di alcuni anni dopo, il Belli conferma i capisaldi della sua estetica tanto grossier, quanto di straordinario mimetismo letterario:

LA BELLEZZA DE LE BBELLEZZE

Ce pomnn’esse in ner Monno donne bbelle,
ma un pezzetto de carne apprilibbato
come la serva nova der Curato
nun ze trova, per dio, drent’a le stelle.

Nun te dico er colore de la pelle
più ttosta assai d’un tamburro accordato:
nun te parlo de chiappe e dde senato
che ttappicceno er foco a le bbudelle.

Quer naso solo, quela bbocca sola,
queli du’occhi, so robba, Ggiuvanni,
da fàtte restà llì ssenza parola.

Si è ttanta bella a vvèdela vistita,
Cristo, cosà sarà sott’a li panni!
Bbeato er prete che sse l’è ammannita
(1834)

Insomma, il paradigma della bellezza femminile introiettato nel senso comune e nell’immaginario collettivo del popolo romano ha più a che fare con le forme prosperose delle giunoniche trasteverine o monticiane che con le esili ed eleganti  silhouette  pure presenti, immaginiamo, in qualche palazzo aristocratico della nobiltà nera. Ce lo conferma la canzone romana che nella sua storia secolare ci ha consegnato parecchi testi in cui, non a caso, di frequente amore e cibo si mescolano, originando significativi intrecci e ambigui doppi sensi.
Così, in un canto popolare della prima metà del XVI secolo troviamo l’elenco dei cibi ingeriti da una giovane moglie nei pochi giorni che vanno dalla cena al viaggio di nozze

LA CENA DELLA SPOSA

Che mangerà la sposa la prima sera – la prima sera
che mangerà la sposa la prima sera – che mangerà?
Una fravola inzuccherata
mezzo abbacchio e l’insalata
e mezzo piccioncin – e mezzo piccioncin

Che mangerà la sposa la seconda sera- la seconda sera
Che mangerà la sposa la seconda sera – che mangerà?
una fravola inzuccherata
mezzo abbacchio e l’insalata
due sfogliate e una crostata
co’ mezzo piccioncin – co’ mezzo piccioncin…

E procedendo per accumulazione si arriva alla dodicesima sera, quando la fresca consorte spazza via una mensa pantagruelica:

Che mangerà la sposa la dodicesima sera, la dodicesima sera
Che mangerà la sposa la dodicesima sera, che mangerà?
una fravola inzuccherata
mezzo abbabcchio e l’insalata
due sfogliate e una crostata
tre piccioni viaggiatori
quattro belli pomodori
cinque porchi ammazzatori
co’ sei galli cantatori+
sette anguille marinate
otto indivie sacppucciate
nove botti di bon vino
dieci olive di Marino
undici scatole di confetti
e in più dodici pasticcetti
e mezzo piccioncin – e mezzo piccioncin

Di ben diverso appetitola madonna protagonista di Fatevi all’uscio, un altro canto caratteristico del Cinquecento romano. Il suo è un desinare quasi monacale, una dieta che raccoglierebbe l’approvazione di una modella anoressica dei nostri giorni:

FATEVI ALL’USCIO

Fatevi all’uscio madonna dolciata
Ch’io v’ho recato un cesto d’insalata.

Io v’ho arrecato alsì di fine erbetta
hovvi recato molta porcellana
e nempitella e salvia con rughetta,
persia coviella e di molta borrana.
Siete più chiara che acqua di fontana
E rilucente più che una stagnata.

Fatevi all’uscio madonna dolciata,
ch’io v’ho recato un cesto d’insalata…

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