Lucrezia Borgia |
Critico
equilibrato e severo delle cose d’Italia di due secoli fa, James Fenimore
Cooper (1789 – 1851), il celebre scrittore della frontiera americana, autore
dell’Ultimo dei mohicani (1826), di
passaggio per Roma, tappa di un suo più lungo tour europeo, non poté esimersi
da un sincero omaggio di fronte allo spettacolo dell’avvenenza delle donne
della Città eterna.
Sono stato colpito dalla bellezza singolare delle donne incontrate per
le strade di Roma nell’ultima settimana di Carnevale. Quasi tutte appartengono
al ceto medio; ma, siccome si fanno vedere in pieno giorno, non possono avere
addosso molti artifici. Hanno tutta la delicatezza delle donne americane, ma
hanno seni e spalle più belli, e non mancano affatto di colorito. Hanno un’aria
singolarmente femminile e modesta.
Un giudizio ammirato che lo
scrittore “barbaro” giunto nella capitale del cattolicesimo da un mondo
lontanissimo condivideva con legioni di artisti e letterati, cronisti e
viaggiatori passati per l’Urbe negli ultimi mille anni almeno. La Città dei Papi, opulenta e
affamata, miserabile e doviziosa, si rifletteva anche nell’aspetto esteriore
delle sue donne e nei loro comportamenti: ora è la seduttiva e spregiudicata
Marozia (892 – 955), “bella come una dea e focosa come una cagna” a incarnarne
l’intima essenza, ora tocca alla dissoluta e tribolata Lucrezia Borgia, “Venere
per l’aspetto” e figlia di un pontefice a riassumere nei suoi successi mondani
e nei dolori privati la natura profonda di una Roma caput mundi, anzi caput munni,
santa e plebea, disincantata e superstiziosa, indifferente e passionale. A Roma stanno bene preti, frati, puttane e
abbati suona un antico adagio romanesco confermato dalla fortuna pubblica
delle celeberrime cortigiane Fiammetta, Imperia, Tullia d’Aragona, che non
conobbero, però, un destino personale altrettanto propizio. No, le donne,
soprattutto se belle, non hanno fortuna a Roma, specialmente se all’avvenenza e
al fascino uniscono ambizione e intraprendenza, coraggio e mancanza di
scrupoli. È il caso di Teodora (870 – 916) e delle sue due figlie Marozia (892
– 937) e Teodora II, a cui il potere maschile non perdonò di avere infranto un
millenario dominio di genere. Così una storiografia tendenziosa presenta
Teodora come “una sfacciata puttana… che chiavava preti e cardinali per
governare e ottenere favori” e tutte e tre le donne come protagoniste di quel governo delle prostitute che resse le
sorti di Roma per i primi trent’anni del X secolo. Né andò meglio, mezzo
millennio più tardi, a due nobildone, Vittoria Accoramboni (1557 – 1585) e a
Violante Carafa d’Afile che pagarono con la vita il coraggio di darsi un
amante; a Beatrice Cenci che allo stesso modo scontò il tentativo di liberarsi
da un padre-padrone; ad Artemisia Gentileschi (1593 – 1653) che espiò con
l’allontanamento da Roma la propria originalità artistica.
La bellezza delle donne romane, cos’è?
La bellezza. Concetto
effimero, volatile quello della bellezza. Soggetto al mutare del tempi, dei
punti di vista, delle mode. Il giudizio estetico è sempre singolare e
soggettivo e non è possibile stabilire una volta per tutte ciò che è bello
sempre e comunque. In cosa consiste, dunque, questa tanto decantata bellezza
delle donne romane? Dopo circa un millennio di enunciazioni più o meno vaghe,
Gigi Zanazzo (1860 – 1911), studioso delle tradizioni del popolo romano e poeta
romanesco a sua volta, propone finalmente un canone largamente condivisibile e
minimamente obbiettivo:
Sette bellezze cià
d’avé la donna
prima che bella se
possi chiamà:
arta dev’esse,
senza la pianella,
e bianca e rossa
senza l’alliscià.
La bocca piccolina
e l’occhio bello
Grazziosetta
dev’esse ner parlà:
larga de spalle e
stretta in centurella
quella se pò chiamà
na donna bella:
larga de spalle e
stretta de cintura
quella è na donna
bella pe natura.
Certo, ben più sanguigno
nei suoi canoni estetici e senza alcuna pretesa di fornire una precettistica si
era dimostrato Giuseppe Gioacchino Belli:
A NINA
Tra ll’antre tu’
cosette che un cristiano
ce se farebbe
scribba o fariseo,
tienghi, Nina, du’
bbocce e un culiseo,
proprio da guarnì
er letto ar gran Zurtano
A cchiappe e
zzinne, manco in ner moseo
sc’è robba che tte
po’ arrubbà la mano;
chè ttu,
ssenz’agguantaije er palandrano,
sce facevi appizzà
Ggiusepp’ebbreo.
Io sce vorrebbe
franca ‘na scinquina
che nn’addrizzi più
tu ccor fa l’occhietto
che ll’antre cor
mostrà la passerina.
Lo so ppe mmè, cche
ppe ttrovà l’uscello,
s’ho da pisscià,
ciaccènno er zoccoletto:
e lo vedessi mò,
ppare un pistello.
(1831)
Profonde le differenze tra
il garbo controllato del primo e la densità materica quasi espressionista del
secondo, che assumendo come proprio il punto di vista della plebe romana non
può che servirsi di un mondo di immagini e di un lessico grevi, triviali, osceni.
In un altro sonetto di
alcuni anni dopo, il Belli conferma i capisaldi della sua estetica tanto grossier, quanto di straordinario
mimetismo letterario:
LA
BELLEZZA DE LE BBELLEZZE
Ce pomnn’esse in
ner Monno donne bbelle,
ma un pezzetto de
carne apprilibbato
come la serva nova
der Curato
nun ze trova, per
dio, drent’a le stelle.
Nun te dico er
colore de la pelle
più ttosta assai
d’un tamburro accordato:
nun te parlo de chiappe e dde senato
che ttappicceno er foco a le bbudelle.
Quer naso solo, quela bbocca sola,
queli du’occhi, so robba, Ggiuvanni,
da fàtte restà llì ssenza parola.
Si è ttanta bella a vvèdela vistita,
Cristo, cosà sarà sott’a li panni!
Bbeato er prete che sse l’è ammannita
(1834)
Insomma, il paradigma della
bellezza femminile introiettato nel senso comune e nell’immaginario collettivo
del popolo romano ha più a che fare con le forme prosperose delle giunoniche
trasteverine o monticiane che con le esili ed eleganti silhouette pure presenti, immaginiamo, in qualche
palazzo aristocratico della nobiltà nera. Ce lo conferma la canzone romana che
nella sua storia secolare ci ha consegnato parecchi testi in cui, non a caso,
di frequente amore e cibo si mescolano, originando significativi intrecci e
ambigui doppi sensi.
Così, in un canto popolare
della prima metà del XVI secolo troviamo l’elenco dei cibi ingeriti da una
giovane moglie nei pochi giorni che vanno dalla cena al viaggio di nozze
LA CENA DELLA SPOSA
Che mangerà la sposa la prima sera – la prima sera
che mangerà la sposa la prima sera – che mangerà?
Una fravola inzuccherata
Una fravola inzuccherata
mezzo abbacchio e l’insalata
e mezzo piccioncin – e mezzo piccioncin
Che mangerà la sposa la seconda sera- la seconda sera
Che mangerà la sposa la seconda sera – che mangerà?
una fravola inzuccherata
mezzo abbacchio e l’insalata
due sfogliate e una crostata
co’ mezzo piccioncin – co’ mezzo piccioncin…
E procedendo per
accumulazione si arriva alla dodicesima sera, quando la fresca consorte spazza
via una mensa pantagruelica:
Che mangerà la
sposa la dodicesima sera, la dodicesima sera
Che mangerà la
sposa la dodicesima sera, che mangerà?
una fravola
inzuccherata
mezzo abbabcchio e
l’insalata
due sfogliate e una
crostata
tre piccioni
viaggiatori
quattro belli
pomodori
cinque porchi
ammazzatori
co’ sei galli
cantatori+
sette anguille
marinate
otto indivie
sacppucciate
nove botti di bon
vino
dieci olive di
Marino
undici scatole di
confetti
e in più dodici
pasticcetti
e mezzo piccioncin
– e mezzo piccioncin
Di ben diverso appetitola
madonna protagonista di Fatevi all’uscio,
un altro canto caratteristico del Cinquecento romano. Il suo è un desinare
quasi monacale, una dieta che raccoglierebbe l’approvazione di una modella
anoressica dei nostri giorni:
FATEVI ALL’USCIO
Fatevi all’uscio madonna dolciata
Ch’io v’ho recato un cesto d’insalata.
Io v’ho arrecato alsì di fine erbetta
hovvi recato molta porcellana
e nempitella e salvia con rughetta,
persia coviella e di molta borrana.
Siete più chiara che acqua di fontana
E rilucente più che una stagnata.
Fatevi all’uscio madonna dolciata,
ch’io v’ho recato un cesto d’insalata…
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