di Gianni Quilici
Ci sono dei
romanzi o racconti, sui quali scrivere diventa difficile, perché il pensiero
più istintivo è tanto semplice quanto frustrante: leggetelo! Leggetelo, perché
non ve ne pentirete e non importa se il lettore sia alquanto sofisticato oppure
alquanto modesto.
Questo ho pensato
dopo aver letto velocemente il racconto Un
tetto per la notte di Robert Louis
Stevenson, in una edizione forse introvabile “L’argonauta” del 1987, che
contiene un altro racconto La porta di
Sire di Maletroit, quasi una fiaba, gradevole come tutto ciò che ha scritto
Stevenson, ma di cui si può fare a meno.
Un tetto per la notte è un racconto su François Villon, grande
poeta maledetto, vissuto nel secolo XIV, che, arrestato quattro volte per
episodi di malavita, e dopo essere stato condannato a morte, riuscì sempre a
farsi rilasciare.
Robert Louis Stevenson |
Perché, a mio
parere, è un grande racconto? Proviamo in modo forse pedante a scomporlo un
pochetto, inserendo per motivare il giudizio brevissimi spezzoni, che comunque
non dovrebbero togliere per niente il piacere di leggerlo.
Primo: perché è
straordinariamente visivo, scorre attraverso i nostri occhi come se fosse un
film, in cui paesaggio e vicenda umana si fondono mirabilmente.
Stevenson,
infatti, ci introduce subito in una Parigi notturna avvolta dalla neve che cade
con “un’insistenza aspra e implacabile” con il vento tagliente che
“sparpagliava intorno in mulinelli svolazzanti” con i fiocchi di neve che
“scendevano ad uno ad uno, dall’oscurità della notte, silenziosi, turbinanti
senza fine” eccetera eccetera.
Il freddo bianco e
avvolgente della serata diventa ancora più implacabile, palpabile e assorbente
attraverso il poeta, che è costretto a vivere fuori al ghiaccio, derubato, affamato
con il rischio di finire congelato come è successo ad una donna su cui era
inciampato, rimasta tra la neve “gelata e rigida come un bastone” oppure con la
possibilità di venire catturato dalle ronde dei soldati, che giravano a frotte
per la città e che avrebbero potuto prelevarlo ed impiccarlo senza tanti
problemi, considerando che poco prima c’era stato, tra i suoi compari, un
delitto, di cui era stato spettatore.
Secondo:
l’immediata, viva e profonda capacità di descrivere ogni personaggio del racconto,
anche quelli minori, riuscendo a armonizzare con molta abilità l’aspetto fisico
con il carattere e viceversa.
Prendiamo come
esempio Don Nicolas, frate della Piccardia “col saio rimboccato e le gambe
grasse e nude”.
“La sua faccia, gonfia e tumefatta come
quella di un bevitore accanito, era coperta da una rete di venuzze
congestionate, rosse in circostanze normali, ma ora di un violetto pallido (…) Il
cappuccio gli era mezzo cascato giù dalle spalle, e formava una strana
escrescenza ai lati del suo collo taurino. Se ne stava così a gambe larghe
mugugnando, e tagliava la stanza a metà con l’ombra della sua massiccia
corporatura”
Ma straordinario è
soprattutto Villon, ladro e derubato, teatrale e sensibile, orgoglioso e opportunista, scaltro e angosciato.
Terzo: è infine un
racconto di classe, nell’accezione marxista del termine. Alla fine Villon,
infatti, trova ospitalità da un vecchio
gentiluomo, in una casa signorile con arazzi eleganti, brocche d’oro, stemma araldico.
Qui, mentre sta mangiando e bevendo golosamente, inizia una conversazione che
assume progressivamente i caratteri di uno scontro.
Da una parte “il
signore di Bristout, balivo del
Patatrac”, come si presenta, orgoglioso dei suoi gradi, fedele a valori come la
fedeltà a Dio, la cortesia d’animo, l’onore, la rispettabilità; valori nobili,
secondo lui, rispetto ai piccoli bisogni terreni del mangiare e del bere.
Dall’altro Villon,
povero maestro di Belle Lettere, ladro, furfante, vagabondo e squattrinato, che
però rivendica il proprio onore, perché sa cosa vuol dire soffrire con la
pancia vuota.
Gli dice infatti
osando criticarlo: “Se l’aveste provata voi tante volte quanto me” - sottintesa
la fame- “forse il tono del vostro discorso cambierebbe”; e se non bastasse si
pone sullo stesso piano, lui ladro, del gentiluomo pieno dei suoi valori di
privilegio. Dice infatti: “ In ogni caso io sono un ladro, ma anch’io ho un mio
onore valido come il vostro”
Il gentiluomo non
può accettare questo tono e questi contenuti e lo caccia disgustato dalla sua
presenza qualificandolo “vagabondo e farabutto impudente”, facendogli, tuttavia
strada per un puntiglio d’onore e congedandolo infine con un: “Dio abbia pietà
di voi”.
Come si intuisce
anche nella sorprendente chiusa Villon non è uno stinco di santo così come il
vecchio gentiluomo non è senza pietà e generosità. Lo scontro, insomma, è ricco di perspicaci sfumature
psicologiche e ideologiche.
Robert Louis Stevenson. Un tetto
per la notte. Traduzione di Piero
Pignata e Rosa Clot-Tite. L’Argonauta.
Si può trovare anche come Ebook
edizione Faligi Editore. 1,99 euro.
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