Non
accenna a diminuire la fortuna di Edgar Allan Poe. Dagli USA all’Italia
continuano a moltiplicarsi la traduzioni, le edizioni, le riletture alla
ricerca di una sempre maggiore consapevolezza critica dei testi dello
‘scrittore maledetto’ per eccellenza.
I
suoi racconti straordinari, fantastici, di viaggio, che avranno una grande
influenza sull’ispirazione di Jules Verne, polizieschi, per i quali egli
inventò il detective Dupin, archetipo di tutti gli ‘investigatori
dell’intelligenza’ da Sherlock Holmes ad Hercule Poirot, sono ancora gustati
con coinvolta apprensione da milioni di lettori di tutte le età, in ogni parte
del mondo. Ma Poe non è solo l’iniziatore di ‘generi’ che tanta fortuna hanno
avuto dalla seconda metà dell’Ottocento ai nostri giorni: è anche poeta di
versi ‘visionari’, “invenzioni di ritmica bellezza e musica pura” e nemmeno è
da trascurare il suo epistolario. Soprattutto le lettere d’amore scritte
nell’adolescenza quando s’infatuò di Jane Stith Stanard, una sua insegnante,
donna già matura e destinata a morire pazza, e quelle alimentate dalla passione
del romanziere per la cugina Virginia, minata dalla tisi e sposata nel 1835 in
circostanze drammatiche, quando la giovinetta aveva solo 13 anni e ne
dimostrava anche meno.
Critici
e biografi hanno dedicato centinaia di saggi volti ad indagare tutti i
possibili anfratti della sua allucinata fantasia e i motivi che hanno
determinato la sua costante sensibilità per l’orrido e il fantastico.
Questi
furono forse legati strettamente al dramma umano che egli visse a soli due
anni: un mattino del 1811, in un albergo di quart’ordine a Richmond, l’Indian
Queen Tavern, in una cameretta angusta, nella quale si respirava un’aria
pesante e fetida, su un misero giaciglio moriva Elisabetta Poe, sua madre,
donna di grande bellezza e di notevole talento artistico, figlia di attori e
vedova di David Poe, un modesto teatrante scomparso qualche mese prima
consumato dalla tubercolosi. Nella stanzetta del sordido albergo c’erano solo
loro due, madre e figlio: ed Edgar, dei cui pianti nessuno si accorse,
abbandonato a se stesso, scrutò il volto emaciato della madre che agonizzò per
due giorni accanto a lui, prima di chiudere per sempre quei suoi grandi occhi
neri, disperatamente fissi sul piccolo che l’aveva vegliata giorno e notte.
A
proposito delle macabre fantasie di Poe, un suo biografo scriverà: “Non è la
memoria a ritenere coscientemente fatti ed episodi, ma è il subcosciente,
sconosciuto a noi stessi, a determinare quella base su cui si formerà il
carattere e il destino. Perciò tutte le donne di Poe saranno malate, avranno il
marchio delle immagini che egli ebbe a due anni accanto al letto della madre.
Per tutta la vita, Poe subirà attrazione e repulsione per il sangue, che gli
ricorderà quel filo di sangue che scendeva dalle labbra della madre “.
Elisabetta
Poe aveva una sola, vera amica e sarà lei, Frances Allan, a prendersi cura del
bambino e a ospitarlo nella sua grande casa dominata dal marito, commerciante
di tabacco e schiavi.
Il
piccolo Edgar, insieme alla sorella Rosalba, fu adottato dagli Allan, dai quali
prenderà l’altro suo cognome. Visse un’infanzia serena, confortato dall’affetto
sincero della madre adottiva, che però morì quando il futuro romanziere era
ancora fanciullo. La sua educazione fu assunta allora in prima persona dal
signor Allan, un uomo ricco e prodigo, che condusse Edgar non ancora
quindicenne in Inghilterra, luogo deputato per ogni educazione degna di questo
nome, e lo sistemò in uno dei migliori istituti privati. Per il ragazzo,
sensibilissimo, il college sarà soltanto un “ tetro e tristissimo ambiente
inglese”. Lì non riuscirà mai ad essere partecipe dello spirito dei suoi
compagni di studio, pur affrontando con decisione le difficoltà dei corsi,
sempre capace ma mai eccellente.
Negli
Stati Uniti il giovane Edgar tornerà solo al termine di questo lungo periodo di
preparazione. Con gli Allan frequenta la migliore società, acquista maniere da
gentiluomo, si iscrive all’Università della Virginia. Con ingenuità e candore
si tuffa nella bella vita: beve, gioca d’azzardo, contrae debiti e, quando il
padre adottivo cerca di riportarlo sulla retta via, lascia tutto e tutti e se
ne va a Boston dove pubblica un primo libretto di versi, Tamerlano e altre poesie (Tamerlan
and other poems, 1827): non gli darà la fama e neppure la notorietà, ma lo
renderà consapevole delle sue possibilità di scrittore.
Ma
inizia anche la sua esistenza errabonda. Da questo momento vagherà sempre
inseguito dai creditori, fino a cercare ospitalità a Baltimora presso una zia,
Maria Clemm. Qui conosce Virginia, la fanciulla tredicenne che sposerà senza
esitazione, nonostante la giovanissima età della ragazza, sicuro di aver
finalmente incontrato il grande amore. Edgar Allan Poe ha allora soltanto
ventidue anni. Pubblica un’altra raccolta di versi e nel 1830, dopo essersi
arruolato nell’esercito, viene ammesso all’Accademia di West Point, da dove,
più o meno un anno dopo, verrà espulso con una sentenza della corte marziale.
Indifferente
a tutto, se ne torna tranquillamente a Baltimora e per guadagnare qualche soldo
partecipa ad un concorso letterario con un racconto, il celeberrimo Manoscritto trovato in una bottiglia:
vince cento dollari. Intuisce che i racconti del brivido sono destinati ad
avere una grande presa sul pubblico dei lettori, incoraggiato in ciò dagli
editori che vedono nella sua scrittura allucinata e macabra la possibilità di
buoni guadagni.
Crea
così, come mosso da un’istintiva vocazione all’horror, un genere nuovo che dominerà
e domina tuttora la letteratura del brivido, maestro riconosciuto anche dai
grandi novecenteschi dell’orrido e del fantastico, da Lovecraft a King.
La
sua è un’arte che ha connaturata in sé il demoniaco, con intrecci di una
fantasia esaltata e terrificante, che si compiace nei suoi scritti di inventare
e sciogliere gli enigmi più complicati. Con il personaggio del detective
Auguste Dupin inaugura un genere poliziesco destinata a durare a lungo,
influenzando non solo gli scrittori di ‘gialli’ sino ai nostri giorni, ma anche
i grandi registi di Hollywood. Per esempio, lo stesso Alfred Hitchcock non
esiterà ad ammettere di aver letto e riletto i capolavori di Poe per trovare
ispirazione ai suoi film. Nonostante la celebrità letteraria quasi raggiunta, tormentato
da costanti problemi psicologici, oppresso da una lacerante malinconia,
avvilito da una perenne depressione che cerca di superare con il sostegno e il
conforto dell’alcool, Poe conduce un’esistenza dissoluta, stravagante,
trasgressiva, costantemente ‘al limite’ e oltre.
Per
il denaro manifestò addirittura avversione e passò in un breve volgere di tempo
dalla agiatezza economica alla più squallida miseria, una condizione che lo
accompagnerà fino alla fine della sua vita, soprattutto dopo aver perduto anche
l’affetto della sua Virginia, morta giovanissima dopo un’agonia che gli fece
ricordare da vicino quella materna. “Io non sono riuscito ad amare che là dove
la Morte mescolava il suo fiato con quello della Bellezza“: così scriveva il
romanziere con l’occhio evidentemente rivolto alla tragedia dei suoi affetti
privati.
Straordinaria
la sua sottigliezza di penetrazione psicologica all’interno dei terrori
dell’animo, sapiente la sua preparazione alla catastrofe, di una ingegnosità
maniacale i suoi enigmi e i suoi modi per scioglierli. Da questi elementi
nascono I racconti del grottesco e
dell’arabesco (Tales of the grotesque and the arabesque, 1840), Lo scarabeo d’oro (The gold bug, 1843), Gli
omicidi della Rue Morgue (Murders in the Rue Morgue), La lettera rubata (The purloined letter) per ricordare solo i testi più avvincenti e
famosi. L’alcool e la penna erano i suoi compagni più fidati, gli unici amici
che riuscivano a dargli forza e una qualche sicurezza.
Non
ebbe nemmeno la soddisfazione di apprendere che Mallermé aveva tradotto le sue
poesie e mai gli venne in mente che Verne, Stevenson e Wilde avrebbero, qualche
anno più tardi, tratto non pochi insegnamenti dalla sua ingegnosità
speculativa.
Gravato
da tare psichiche, da inibizioni sessuali, dall’impotenza dovuta all’uso
dell’oppio, dal lacerante e sempre presente ricordo della madre, Poe morì a
soli quarant’anni, in una grigia giornata d’ottobre in uno squallido vicolo di
Baltimora “mentre accanto a lui un compagno di sbronze gli cantava con voce gutturale
una triste nenia d’addio. Se ne andò senza particolari rimpianti, se non per la
bottiglia vuota abbandonata al suo fianco dalla quale aveva tracannato anche
l’ultima goccia”.
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