12 gennaio 2015

"I dieci comandamenti " di Roberto Benigni




Roberto Benigni ha la sua sigla: la marcetta circense di Nicola Piovani allude a clowns e piroette, con un po’ di malinconia e un po’ di mistero; dopo qualche secondo che è iniziata, lui fa la sua entrata in scena, gesticolando: è il comico, il saltimbanco, l’imbonitore...
Questa volta l’attore si cimenta con una prova, che colma di soddisfazione tante persone, ma fa anche storcere il naso a parecchie altre ( “Che si mette a fare ora: il predicatore cristiano?” ):  I dieci comandamenti, appunto.

La cosa che più conta, secondo il mio parere, al di là di credere o non credere, è il messaggio liberatorio: una libertà intesa come fatica e conquista; un messaggio di amore e di pace.

L a chiesa c’entra poco. Anzi. Ciò che tradizionalmente il catechismo ci ha insegnato dei dieci comandamenti viene messo in crisi. A cominciare dalla numerazione: non 3, ma 4 i comandamenti “verticali”, che riguardano cioè il rapporto tra l’uomo e Dio; non 7, ma 6 quelli “orizzontali”, sui rapporti degli uomini tra di loro.

Continuando, “Non nominare il nome di Dio invano” non è il divieto banale di bestemmiare ( e qui Benigni inserisce un esilarante siparietto in toscanaccio sulle bestemmie di un tale ), ma l’obbligo di non usare mai il nome di Dio per commettere azioni cattive ed empie, come fare una guerra; il sesto comandamento viene ricondotto alla sua formulazione originaria: “ Non commettere adulterio”, che non ha niente a che vedere con “Non commettere atti impuri” ( anche in questo caso, si fa una lunga allusione all’interpretazione sessuale del divieto ed ai mille tormenti, fisici e psicologici, di un ragazzo)   ed è contestualizzato nella realtà socioculturale del tempo; un altro esempio riguarda i due comandamenti finali, originariamente un unico comandamento, che vengono letti  sotto il profilo non del desiderio vero e proprio, ma dell’invidia.

La lettura dei testi è filologica, nel senso che è una traduzione letterale dell’ebraico, contestualizzata e con le sue implicazioni storiche e filosofiche: Benigni ( e i suoi collaboratori ) fanno un’operazione di interpretazione critica e filosofica della Scrittura.

La fede c’entra, ma è quasi un patto tra lui e il pubblico: se Benigni non credesse in Dio, non comincerebbe nemmeno la performance; qui, ora, nessuno può mettere in dubbio l’esistenza di Dio.
E del resto è un Dio di libertà, di amore, di infinito; è anche un Dio illuminista, il Dio del silenzio e del colloquio con se stessi.

E’ una performance, in cui il comico mette in evidenza energia, memoria, generosità e intelligenza; alle spalle c’è lo studio, ma nel suo manifestarsi troviamo sempre un approccio colloquiale, un discorso anche contorto, anacolutico e un uso del dialetto, sia pure più controllato di altre occasioni. 

Il tutto accompagnato da una mimica del volto e della gestualità immediatamente comunicativa.

E’ una performance che non conosce quasi tregua ( due puntate , ciascuna della durata di un’ora e mezzo ), se non le brevi pause che preludono alla lettura del testo. E naturalmente niente pubblicità.
   

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