di Luciano Luciani
Ancora
due inchieste criminali per Bruno Carcade, commissario capo della Questura di
Lucca, già incontrato in due romanzi, Il
pescatore di sassi e All’ombra di
Narciso. I due racconti lunghi che costituiscono questo libro, oltre a
testimoniare di una vena narrativa ancora fresca e vivace, aggiungono nuovi
particolari all’umanità del protagonista seriale, sempre meno personaggio
letterario e sempre più, invece, figura riconosciuta e
riconoscibile: come un conoscente, di quelli che ci fa piacere incontrare di
tanto in tanto, un simpatico vicino di casa di cui imparare piano piano ad
apprezzare doti e qualità e a sopportare gli inevitabili difetti. E, oltre a
questo piacere di incrociare di nuovo una figura familiare con cui ci è
capitato di trovarci bene, apprendiamo anche qualcosa di nuovo sul metodo
d’indagine del nostro “sceriffo”. Olio di gomito, sì, e buone gambe (riscontri,
interrogatori, identikit, reperti e referti…), ma anche capacità di dare senso
alle suggestioni profonde del cuore e della mente, saper ascoltare il valore
delle evocazioni che vengono da lontano, dalle memorie profonde, dai ricordi.
Così,
nel primo racconto, La quercia degli
impiccati, alle prese con un omicidio travestito da suicidio e
particolarmente macabro ed efferato, quasi da libro horror/splatter – c’è il
cadavere di una donna completamente dissanguato che pende dal ramo di una
quercia – saranno proprio queste ultime doti a permettergli di risolvere il
caso, ristabilire l’ordine infranto dalla cattiveria umana, rassicurare il
lettore e lasciarlo tranquillizzato e pacificato, così come avviene nella
migliore tradizione del giallo poliziesco classico.
Carcade, poi, è ricco anche
di un’altra qualità che, indagine dopo indagine, sembra essere sempre più la
sua cifra investigativa: riesce a penetrare cose, vicende, relazioni, che
rimangono oscure a tutti gli altri osservatori. Ed è in base a elementi poco
apprezzati o che restano inavvertiti ai più che il commissario capo Carcade
riesce a individuare il bandolo della matassa. È, insomma, un acuto, perspicace
“lettore di immondizie”: può, più e meglio di altri, decifrare e interpretare i
detriti delle normali osservazioni. A lui restano nella mente e nell’occhio
taluni dettagli, certi particolari, che mettono in movimento una catena di
fantasie, impressioni, sensazioni, alla cui fine se non appare la soluzione del
caso, c’è almeno l’indicazione della strada da imboccare per cogliere il
nocciolo duro e tossico del male e assicurare il colpevole alla giustizia.
Altra
facoltà di Carcade è quella di non limitarsi alla speculazione puramente
intellettuale di tanti detective della tradizione gialla, ma, alla maniera di
Maigret, sa “annusare l’uomo”, riesce cogliere negli atti, nei comportamenti degli
indagati, la sua controparte, il sentore, l’afrore di un’umanità più o meno
malata e regolarsi di conseguenza.
Poi,
mai come in questi due racconti lunghi, ambientati su riconoscibilissimi
scenari nostrani, la
Garfagnana e la
Mediavalle, Castelnuovo e Barga, in due momenti diversi dalla
vita di Carcade, è acuta consapevolezza della banalità del male e del costante
intervento del caso che la fa sempre da padrone sia nell’agire criminoso, sia
nello scioglimento del mistero.
La
realtà è caotica, il mondo è dominato soprattutto dall’irrazionale. E la
ragione non riesce a governare e interpretare tutto. In particolare, non è in
grado di spiegare i moventi profondi di
quel gran guazzabuglio che è il cuore umano. È un Carcade insolitamente
crepuscolare, nebbioso, ripiegato su se stesso quello che emerge da queste
pagine, lui solitamente così mediterraneo, solare, edonista, amante dei cibi e
della bellezza, in primis quella
delle donne. Quindi, siamo di fronte a una figura ancora in trasformazione, un
personaggio/protagonista che, se il suo Autore vorrà, sembra destinato a
regalarci ancora tante novità, sorprese, emozioni.
E Calabretta lo racconta,
questo protagonista, alla sua maniera. Con una lingua disadorna, senza
fronzoli, essenziale, attenta al fuori,
al progredire di fatti e delle trame, ma anche al dentro, all’evoluzione dei pensieri e agli stati d’animo di questo
e degli altri personaggi chiamati sulla scena. Una scrittura asciutta, scabra,
adatta a incidere, a scavare alla maniera dei minatori: una dura fatica per
portare alla luce, schegge, frammenti, lacerti di una sempre complessa,
difficile verità.
Un
libro, questo di Calabretta, che rappresenta l’ennesima conferma che la nuova,
lunga stagione del romanzo d’indagine in salsa tricolore non accenna a declinare.
Un fenomeno che dura da oltre un ventennio, letterariamente e sociologicamente
interessante, con cui gli scrittori italiani di genere si dimostrano in grado
di proporre ai loro lettori trame intelligenti, personaggi umani e credibili,
sensazioni nette e precise, problematiche, quasi sempre segnate in senso
marcatamente civile. E non è solo il caso di Autori ormai celeberrimi come
Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto. Penso anche ai toscani
Malvaldi, Vichi, Simi e alle loro storie ambientate su scenari riconoscibili e
capaci di riflettere il male e l’orrore che in maniera così larga avvelenano la
nostra contemporaneità.
Vanno in questa direzione anche le pagine di Beppe
Calabretta che ci offre ancora una prova, una buona prova, di saper bene
rielaborare, aggiornandoli al nostro oggi, gli eterni temi del sospetto e
dell’intrigo, della violenza e del delitto, del crimine e della sua
riparazione, risultato di solito dovuto all’opera di eroi talora malconci e
sgualciti, ma dalla intelligenza affilata e tagliente come un rasoio.
Beppe
Calabretta, Due indagini per il commissario Carcade, Garfagnana editrice,
2014, pp. 100, Euro 12,00
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