04 gennaio 2015

"Due indagini per il commissario Carcade" di Beppe Calabretta



di Luciano Luciani 

Ancora due inchieste criminali per Bruno Carcade, commissario capo della Questura di Lucca, già incontrato in due romanzi, Il pescatore di sassi e All’ombra di Narciso. I due racconti lunghi che costituiscono questo libro, oltre a testimoniare di una vena narrativa ancora fresca e vivace, aggiungono nuovi particolari all’umanità del protagonista seriale, sempre meno personaggio letterario e sempre più, invece, figura riconosciuta e riconoscibile: come un conoscente, di quelli che ci fa piacere incontrare di tanto in tanto, un simpatico vicino di casa di cui imparare piano piano ad apprezzare doti e qualità e a sopportare gli inevitabili difetti. E, oltre a questo piacere di incrociare di nuovo una figura familiare con cui ci è capitato di trovarci bene, apprendiamo anche qualcosa di nuovo sul metodo d’indagine del nostro “sceriffo”. Olio di gomito, sì, e buone gambe (riscontri, interrogatori, identikit, reperti e referti…), ma anche capacità di dare senso alle suggestioni profonde del cuore e della mente, saper ascoltare il valore delle evocazioni che vengono da lontano, dalle memorie profonde, dai ricordi.

Così, nel primo racconto, La quercia degli impiccati, alle prese con un omicidio travestito da suicidio e particolarmente macabro ed efferato, quasi da libro horror/splatter – c’è il cadavere di una donna completamente dissanguato che pende dal ramo di una quercia – saranno proprio queste ultime doti a permettergli di risolvere il caso, ristabilire l’ordine infranto dalla cattiveria umana, rassicurare il lettore e lasciarlo tranquillizzato e pacificato, così come avviene nella migliore tradizione del giallo poliziesco classico. 

Carcade, poi, è ricco anche di un’altra qualità che, indagine dopo indagine, sembra essere sempre più la sua cifra investigativa: riesce a penetrare cose, vicende, relazioni, che rimangono oscure a tutti gli altri osservatori. Ed è in base a elementi poco apprezzati o che restano inavvertiti ai più che il commissario capo Carcade riesce a individuare il bandolo della matassa. È, insomma, un acuto, perspicace “lettore di immondizie”: può, più e meglio di altri, decifrare e interpretare i detriti delle normali osservazioni. A lui restano nella mente e nell’occhio taluni dettagli, certi particolari, che mettono in movimento una catena di fantasie, impressioni, sensazioni, alla cui fine se non appare la soluzione del caso, c’è almeno l’indicazione della strada da imboccare per cogliere il nocciolo duro e tossico del male e assicurare il colpevole alla giustizia.

Altra facoltà di Carcade è quella di non limitarsi alla speculazione puramente intellettuale di tanti detective della tradizione gialla, ma, alla maniera di Maigret, sa “annusare l’uomo”, riesce cogliere negli atti, nei comportamenti degli indagati, la sua controparte, il sentore, l’afrore di un’umanità più o meno malata e regolarsi di conseguenza.

Poi, mai come in questi due racconti lunghi, ambientati su riconoscibilissimi scenari nostrani, la Garfagnana e la Mediavalle, Castelnuovo e Barga, in due momenti diversi dalla vita di Carcade, è acuta consapevolezza della banalità del male e del costante intervento del caso che la fa sempre da padrone sia nell’agire criminoso, sia nello scioglimento del mistero.

La realtà è caotica, il mondo è dominato soprattutto dall’irrazionale. E la ragione non riesce a governare e interpretare tutto. In particolare, non è in grado di spiegare i moventi  profondi di quel gran guazzabuglio che è il cuore umano. È un Carcade insolitamente crepuscolare, nebbioso, ripiegato su se stesso quello che emerge da queste pagine, lui solitamente così mediterraneo, solare, edonista, amante dei cibi e della bellezza, in primis quella delle donne. Quindi, siamo di fronte a una figura ancora in trasformazione, un personaggio/protagonista che, se il suo Autore vorrà, sembra destinato a regalarci ancora tante novità, sorprese, emozioni. 

E Calabretta lo racconta, questo protagonista, alla sua maniera. Con una lingua disadorna, senza fronzoli, essenziale, attenta al fuori, al progredire di fatti e delle trame, ma anche al dentro, all’evoluzione dei pensieri e agli stati d’animo di questo e degli altri personaggi chiamati sulla scena. Una scrittura asciutta, scabra, adatta a incidere, a scavare alla maniera dei minatori: una dura fatica per portare alla luce, schegge, frammenti, lacerti di una sempre complessa, difficile verità.

Un libro, questo di Calabretta, che rappresenta l’ennesima conferma che la nuova, lunga stagione del romanzo d’indagine in salsa tricolore non accenna a declinare. Un fenomeno che dura da oltre un ventennio, letterariamente e sociologicamente interessante, con cui gli scrittori italiani di genere si dimostrano in grado di proporre ai loro lettori trame intelligenti, personaggi umani e credibili, sensazioni nette e precise, problematiche, quasi sempre segnate in senso marcatamente civile. E non è solo il caso di Autori ormai celeberrimi come Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto. Penso anche ai toscani Malvaldi, Vichi, Simi e alle loro storie ambientate su scenari riconoscibili e capaci di riflettere il male e l’orrore che in maniera così larga avvelenano la nostra contemporaneità. 

Vanno in questa direzione anche le pagine di Beppe Calabretta che ci offre ancora una prova, una buona prova, di saper bene rielaborare, aggiornandoli al nostro oggi, gli eterni temi del sospetto e dell’intrigo, della violenza e del delitto, del crimine e della sua riparazione, risultato di solito dovuto all’opera di eroi talora malconci e sgualciti, ma dalla intelligenza affilata e tagliente come un rasoio.

Beppe Calabretta, Due indagini per il commissario Carcade, Garfagnana editrice, 2014, pp. 100, Euro 12,00


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