11 marzo 2021

"Il 68 e io" di Gianni Quilici

 


E tuttavia finalmente vivo

      7 Novembre 1968. Passeggiavo, come ogni sera, tra via Fillungo e via Roma. Ero solo come sempre. Partivo ogni mattina da Lammari facendo l’autostop. Trovavo sempre qualcuno che mi imbarcava. Se mi chiedeva cosa facessi, sentivo la colpa e rispondevo, come un mantra, che non andavo a scuola, ne’ lavoravo, che studiavo per conto mio.  

     Avevo infatti lasciato la scuola rivoltoso e disperato. Dopo essere bocciato in terza media con un giudizio lapidario:”Ragazzo studioso, ma di possibilità limitate”, dove lo studioso era molto discutibile, avevo scelto ragioneria per ragioni, alè alè, calcistiche. Il primo anno ero stato promosso, il secondo l’avevo superato a settembre, nel terzo mi stavo avviando alla bocciatura e avevo deciso a maggio di salare: andando nella biblioteca statale a leggere e scrivere. 

     Era stata una scelta lunga e cupa. Volevo, infatti, studiare, ma non ci riuscivo. Sentivo, senza capirla, l’astrattezza della scuola, la sua lontananza dalla realtà e dai  desideri. Quelli palesi: amore e sesso, sport e calcio; e quelli latenti: la conoscenza e la creatività. Leggevo e mi perdevo, rileggevo e mi riperdevo. Alla fine della giornata non avevo combinato niente. E nei compiti fioccavano quattro, cinque, qualche volta anche due e tre. Umiliante. 

     Nello stesso tempo senza la scuola mi sentivo perso. Conoscevo il lavoro dei campi. Avevo iniziato da piccolo d’estate con mio padre: segavo il grano, tagliavo l’erba,  raccoglievo mele pere, voltavo il fieno, sarchiavo, ma lavoravo come un automa, eseguendo i lavori senza  testa, né  passione. Conoscevo il lavoro della fabbrica. Avevo lavorato in una manovia: masticiavo per 8 lunghissime ore. Scrissi, allora, una poesiola: 

     La luce di questa mattina/ frizzante come Fantasia irrequieta/ si avvolgerà in distesa/ sulla campagna verdeggiante di aprile/ Eccola là al solito/ immobile grigio cemento/ mugghiante senza soste/ la grossa fabbrica/ Non si può rimanere a guardare/ masticiando nel chiuso soffocatoio/ di un tran tran sempre uguale/ Mi molleggio di qua di là/ ad aprire parole nuove/ l’amore verso la vita/ trattenuto nei denti/ nei lunghi silenzi/ negli sguardi carichi/ di rabbia inutile/ che dà coraggio/ La campagna mi allarga i polmoni di canto/ ma quattro ore e quattro ore/ mi scoppia la testa/ Vorrei uccidere/ per farmi conforto/. 

     Quale futuro mi si presentava? Mi prendeva lo sgomento quando lo immaginavo. Pedalavo in bici tornando da scuola e tutto mi sembrava vecchio: le strade e i pensieri, la scansione del tempo ed io in tutta la sua totalità. Mi vedevo fallito, perso nel vortice della vita, senza orizzonti davanti a cui appigliarmi. In più un acuto senso di colpa: tradivo la fiducia dei miei genitori, che tanto erano stati fieri di me alle elementari.

     Fino a quando scopro il mio Io, cioè che io sono io e che posso esprimere la parte profonda di me, modificando il mio rapporto con me e con gli altri.  Era l’aprile 1966. Un amico di scuola mi porta La disobbedienza di Alberto Moravia e un testo di psicoanalisi Nevrosi e sviluppo della personalità di Karen Horney.  Furono un colpo di fulmine. Soprattutto lo fu Moravia per la rappresentazione esplicita della sessualità, per la chiarezza e la profondità, che diventava anche pedagogica,  con la quale esprimeva la cause profonde della rivolta di Luca, l’adolescente protagonista, verso la famiglia, la scuola, gli amici. Mi si aprì un mondo.  Ecco che le mie paure progressivamente spariscono fino a quando mi dissi: “Basta!  girerò il mondo, lavorerò dove capita, scriverò”. Inizia la mia rivolta pre-sessantottesca in classe e nel mio piccolo ambiente lammarese.

     Così in quel mattino di fine maggio ’66 quando salii per la prima volta le scale della Biblioteca Statale, quando entrai  nell’austera silente stanzona di lettura, quando scoprii con gioia che potevo prendere due libri in prestito, lasciando come cauzione 5mila lire, quando scopriii tutto questo inizia una lenta, continua, sofferta, compiaciuta e appassionante scoperta di me e degli altri. Leggo tutto il Moravia lì presente, scopro i grandi romanzi di Dostoevskij e di Thomas Mann, i racconti di Cechov e di  Maupassant, la filosofia  dell’uno, nessuno, centomila sottesa al teatro e alla narrativa di Pirandello e mi apro alla psicoanalisi freudiana; scopro i film di Bergman e  Godard, di Antonioni e Fellini, di Visconti Rossellini, di Bellocchio e Pasolini, canticchio le canzoni dei cantautori nostrani e francesi e mi innamoro della poetica leggerezza dei Beatles e delle profondità dei Pink Floyd. Non sapevo, invece, niente di politica. La percepivo come foresta inesplorata, come un’avventura del corpo e della mente. Ricoprirmene mi affascinava.

     Era il maggio del 68. Coglievo le mele renette quando sentii per la prima volta parlare del “maggio francese”.  E subito dopo mi capita di assistere, per caso, ad un dibattito televisivo sul maggio. Era presente Lucio Magri, tornato da poco dalla Francia, che tanta importanza ha avuto nella mia formazione politica e che mi colpì per la nettezza e lucidità dell’eloquio. Da qui scopro il manifesto di Marx e Engels, che mi dà una visione nuova e penetrante del mondo: la concezione materialistica della storia come lotta di classe, il comunismo come utopia di una società di liberi e uguali. Non c’è bisogno di convincermi. Ero già psicologicamente di sinistra già alle elementari quando mi succedeva di difendere, anche coi pugni, un compagno di scuola più fragile, messo alla berlina degli altri.

      Nel settembre ’68 l’altra decisiva scoperta: l’esistenzialismo di Jean- Paul Sartre. Leggo Le parole e scopro la libertà come un orizzonte che non ha padroni mentali, come possibilità di inventarsi continuamente, andando sempre oltre ciò che si è. Prendo una frase come una bussola che mi accompagnerà: “ Essere diverso da me, dagli altri, da tutto”. E tuttavia ero solo, pur giocando a pallone, pur avendo amici, pur essendo stimato. Giravo allora in bici per i paesi con una barba provocatoriamente lunga, le ragazze mi si presentavano davanti come montagne da scalare, la notte continuavo a sognarmi come incubi le facce dei professori. Per due anni andai frequentemente in biblioteca, lessi, scrissi, guardai le ragazze. Non conoscevo nessuno. Mangiavo un panino per pranzo. La sera tornavo al paesello, in macchina, con un amico più grande che in città lavorava.

      Quella sera del 7 novembre del ‘68 alla fine di via Fillungo un amico lammarese mi si affiancò e mi disse: “Vieni con me. Si va ai comitati d’azione”. Mi trovai in una stanza tappezzata di ritratti di Mao e piena di scritte rivoluzionarie sul muro, qualche sedia, dei fogli di carta per terra su cui sederci, un tavolino coperto di volantini, di libri e di giacche. La stanza si riempì ben presto di ragazzi e ragazze, ma avvertivo l’imbarazzo  di chi è lì, non è conosciuto, non ha nessun ruolo. “Si aspetta Walter” qualcuno disse. Seduto per terra con un libro in mano lo sfogliavo con ostentata attenzione. Nessuno mi aveva rivolto parola. “Si potrebbe parlare dei comitati d’azione” disse qualcuno.  Non ricordo cosa fu detto, gli interventi procedevano, però, stancamente. 

      Sentivo il desiderio di parlare, di smuovere le acque, soprattutto di dire “ci sono” “io sono” e infine parlai con l’emotività di chi viene da un grande silenzio, di chi non era abituato a parlare in pubblico, ma con l’urgenza di buttar fuori ciò che pensavo. Ricordo che posi alla fine una di quelle domande epocali, a cui è sempre difficile comunque rispondere: “… ma voi lo sentite veramente il bisogno di fare la rivoluzione?”. Mi ricordo soltanto che le risposte non furono aggressive e che quando ripresi la parola ebbi il coraggio di criticare la riunione di retorica e di qualunquismo.  Percepivo, infatti, nel modo tranquillo, ironico, superficiale, in cui si tranciavano giudizi  un carattere peculiare di ciò che per me era il piccolo e medio borghese. Soltanto un ragazzo alto, Nello, mi chiese con un sorriso mite cosa facessi e mi accompagnò alla fine per strada. Sarà il mio primo amico.

      Ma cinque giorni dopo, come avevo già preventivato, parto per Roma.  Vado a Roma neanche da provinciale, da abitante di paese: se da una parte, infatti, ho iniziato ad assorbire Marx e Freud,  dall’altra sono quasi privo di esperienze sociali,  cittadine e metropolitane. A Roma vivo da una affittacamere, ho pochi soldi, mangio poco più di una volta al giorno, vado, ogni tanto, in biblioteca statale, continuo a leggere e a scrivere,  cerco da ingenuo un incontro con degli scrittori, frequento il Nuovo Olimpia d’Essai, vedendo quasi un film al giorno. 

      Soprattutto  scopro il movimento studentesco, vengo intercettato dal gruppo marxista-leninista Stella Rossa, che farò conoscere ai comitati d’azione, vendo il loro giornale, mi si offre la metà del ricavato, la mattina vado,  infatti, timido timido, al Magistero in piazza Esedra vendendolo con una mia tecnica, che raffino via via: fermare con voce morbida chi sta per entrare, rimanere per un attimo sospeso in silenzio e poi accennando al giornale soggiungere: “Lo vuoi…. Stella Rossa?”  Partecipo alla manifestazione per Panagulis, condannato a morte dai colonnelli greci, un grande corteo, il primo della mia vita. Gli slogan che salgono all’unisono hanno la determinazione e la forza di “invadere” i viali, mi fanno sentire minuscolo, ma, nello stesso tempo, mi esaltano. Ricordo la polizia schierata in forze di fronte all’ambasciata greca. Vedo ragazzi davanti alle facce dei poliziotti gridare e avvicinarsi e improvvisamente un fuggi fuggi. Scappo tra tanti veloce e terrorizzato, immagino correndo il poliziotto che mi afferra, che mi colpisce ripetutamente, riesco a intrufolarmi con altri, non so come, dentro un ristorante misericordioso e da una finestra intravedo poliziotti che si aggirano per il marciapiede ad un passo coi manganelli e scudo in mano e casco protettivo. Assisto a assemblee di fuoco in silenzio religioso, mi aggiro nel Magistero occupato  da estraneo, vado a dare i volantini con altri nei quartieri, ma rimanendo solo, facendo fugaci incontri soltanto.

       Feste di fine d’anno. Ritorno a Lucca. Sulla circolare che mi porta a Lammari  due ragazze parlano di lotte. “C’è una manifestazione?” chiedo. “No c’è stata la settimana scorsa” rispondono. Così ritrovo gli ambienti del comitato d’azione e delle panchine di Via Roma e decido: rimango a Lucca, a Roma ritornerò poi.

      Inizia l’anno 1969; e inizia qui il mio vero ’68, quello che darà un’ulteriore svolta alla mia vita. Nel comitato d’azione piombo in una crisi di identità politica. Durante la mia permanenza romana, infatti, il movimento studentesco lucchese aveva vissuto momenti straordinari di mobilitazione: la grande manifestazione conclusasi allo Stadio, gli scioperi, i cortei e le occupazioni nelle scuole. Erano, quindi, emersi nel fuoco di queste lotte, studenti in grado di parlare, convincere, opporsi, organizzare, stilare obiettivi contro e per. Compagni che poi avrei conosciuto, più o meno, bene. Virginio Bertini, megafono nei cortei con  la sua voce alta e squillante, Francesco Giuntoli, con una sua convincente oratoria, Grog,  gigante dal sorriso buono, Virginio Monti, appassionato e determinato fino alla veemenza. E mi ero sentito, nella mia solitaria presunzione, ridimensionato, piccolo piccolo.

      Avevo acquisito, comunque, via via una mia specifica identità.  Nello Cattalini, Loriano Belluomini, detto allora il Giovinetto, ed io eravamo stati bonariamente etichettati come “gruppo letteratura” e “marcusiani” da coloro che di fatto erano i leader o meglio le teste più pensanti: Franco Busoni e Guglielmina Bertolucci. Ero, infatti, intervenuto in una assemblea ed avevo accennato alla necessità che la rivoluzione fosse totale,  che riguardasse l’intero essere umano e quindi, sulla falsariga degli scritti di Reich, che fosse anche una rivoluzione sessuale. Avevo poi difeso calorosamente il cinema di Bergman, perché i suoi film rappresentavano comunque una critica profonda della società borghese e dei rapporti ivi presenti e che, come tale, ci doveva interessare. Infine, e soprattutto, sostenevo quella parte della poesia di Pasolini di critica al movimento studentesco, come si stava sviluppando. 

       Pensavo anch’io che buona parte di coloro che lo dirigevano fossero piccolo-borghesi, non perché lo fossero socialmente, ma per una cultura che percepivo dogmatica e settaria, priva di volontà di ascolto e di attenzione verso una società complessa non assimilabile al contesto, in cui erano avvenute le rivoluzioni russa e cinese. Più che maoista e leninista mi sentivo gramsciano e marcusiano. Intuizioni che avevo approfondito, anche, attraverso un saggio di due sociologi, Carlo Donolo e Francesco Ciafaloni, su Quaderni Piacentini, che nel sottolineare la falsa coscienza nel movimento studentesco ne avevano colto le motivazioni psichiche profonde, che contenevano, dietro linguaggi e rituali rigidi e proclamatori, bisogni tanto profondi quanto inconsapevoli: il bisogno di identificazione, il bisogno di certezze e il bisogno di stabilità. Temi che avrebbe approfondito ulteriormente, in modo convincente, uno psicanalista, Giovanni Jervis, e che mi avrebbero portato nel 1971, appena avevo scoperto la rivista, ad abbracciare Il manifesto.

     Tuttavia partecipo a un’occupazione dell’ITC, incontro una delle professoresse che non mi dava mai più di 4, lei mi sorride non so se riconoscendomi; partecipo ai picchetti davanti le fabbriche di Segromigno, un uomo mi si avvicina e bonariamente mi chiede come  mi chiamassi e poco dopo ecco arrivare, a me come ad altri, una denuncia. Mia madre si dispera, mio padre è gravemente malato, mio fratello (più grande) mi minaccia. E non ho lavoro, non ho amori, non ho futuro, se non un’ostinata, maniacale  fiducia in me stesso.

     E tuttavia finalmente vivo. Scopro la politica insieme a migliaia di giovani, ma questa scoperta non è comprensibile se non si collega al piacere che essa comportò. Il piacere di nuovi e molteplici incontri, di amicizie e di amori vissuti o immaginati soltanto. Il piacere di  scontri dialettici fino al turpiloquio. Il piacere di contarsi e di conquistare, di scontrarsi e di organizzare. Il piacere di gridare slogan e di scrivere sui muri, di vivere la strada e la piazza come proprio habitat. Il piacere di non separare il tempo della politica dal tempo dell’esistenza, di analizzare il presente e di percepire il futuro come progetto collettivo che ha anima e corpo! 

      Mi allontano dal comitato d’azione troppo rigido e noioso e le panchine di via Roma, le panchine di ciò che è rimasto del movimento beat, e che fungono da crocevia tra l’aria libertaria ( gli ex beat ) e la nuova generazione presuntuosamente definitasi “rivoluzionaria”, diventano il centro del mio quotidiano vivere. Conosco la poesia fluente e accorata di Nello (Cattalini), la genialità linguistica, egocentrica e polifonica di Enzo (Guidi), le battute distaccate, mordaci e sottili di Bruno (Lugano), gli occhi vivi di Franco (Bacci), gli estremismi genuini e  disperati di Assuero e  di Dorina, il candore esplorativo e  imprevedibile di Loriano, la timidezza adolescenziale di Gian Paolo (Marcucci),  i silenzi  misteriosi di Caterina e di Rosanna (Moncini), la libertà anarchica di Barabba, l’eleganza sorridente e aristocratica di Mauro (Petroni), l’ironia beffarda di Cesare (Donati) e tanti altri scomparsi dal mio orizzonte. Scrissi allora una poesia che termina con dei versi che mi hanno accompagnato e che ancora oggi non mi hanno abbandonato.

Imprigionato in rivolta continua

volermi tutto

naturalmente invano

Tratto dal libro:

E la vita cambiò

-Il '68 a Lucca -

di autori vari

Carmignani editrice

pagine 273. Euro 15.00

 

1 commento:

Anonimo ha detto...

Uno scorcio di ciò che fu fermento nuovo in una piccola città e nelle più grandi di giovani con ideali di giustizia e libertà, scritto ripercorrendo la storia con il ricordo di quegli anni fecondi con la tenacia e la passione giovanile che mai abbandona chi crede fortemente in una società più giusta per tutti e per ognuno.